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L'ultimatum alla Colombia del "bullo" Trump e l'ombra cinese

Jacopo Bottacchi

Aggiornamento: 18 ore fa



di Jacopo Bottacchi


La crisi diplomatica tra Stati Uniti e Colombia, durata meno di 12 ore, ma non per questo derubricabile a semplice incidente di percorso, segna una nuova pagina nelle relazioni tra la potenza nordamericana e i “vicini” del cono sud. La cronaca dei fatti a questo punto dovrebbe essere nota: nei primi giorni del suo mandato, il Presidente Donald Trump si è concentrato particolarmente sulle espulsioni di migranti, soprattutto verso Messico, Guatemala, ma anche Brasile e per l’appunto Colombia.

È bene ricordare che le “deportazioni” (traducendo fedelmente il termine utilizzato nel dibattito statunitense) non sono una novità dell’amministrazione Trump; la scorsa estate, una ricerca del Migrant Policy Institute sottolineava come durante l’amministrazione Biden fossero state deportate circa 1.1 milioni di persone, alle quali si sommavano i 3 milioni di respingimenti alla frontiera, numeri molto simili a quelli raggiunti dalla prima amministrazione Trump, tra il 2016 e il 2020.

Quello che, tuttavia, è radicalmente diverso oggi sono l’apparato propagandistico, la spettacolarizzazione, la violenza e il compiacimento espresso dal nuovo Presidente per ognuna di queste operazioni. Ogni deportazione diventa un momento cardine dell’immagine che la nuova amministrazione vuole proiettare, trasformando una semplice operazione “burocratica”, quasi di routine, in una tappa del mito fondativo per rendere l’America “Great Again”.

Era quindi lecito attendersi, come infatti è stato, che il resto della comunità internazionale non sarebbe stata a guardare a fronte della propaganda statunitense fatta a spese dei propri cittadini.

 

Il grande rifiuto di Petro, dopo il caso brasiliano

Il rifiuto del presidente colombiano Gustavo Petro di far atterrare gli aerei statunitensi in suolo colombiano si può spiegare solo avendo ben presente quanto successo, poche ore prima, a 88 cittadini brasiliani oggetto a loro volta di un provvedimento di espulsione dagli Stati Uniti.

Costretti ad uno scalo non previsto a Manaus (nello Stato di Amazonas) a seguito di un problema tecnico all’impianto di areazione dell’aereo, i cittadini brasiliani erano stati fatti scendere dal velivolo ancora ammanettati e incatenati ai piedi, con la polizia migratoria statunitense che pretendeva di mantenerli in quelle condizioni in attesa dell’arrivo del secondo aereo, che avrebbe dovuto completare la tratta prevista originariamente.  Nel giro di pochi minuti, le immagini avevano ovviamente fatto il giro del paese e del mondo, spingendo il governo brasiliano ad intervenire, chiedendo che la polizia brasiliana prendesse in custodia i cittadini espulsi e provvedesse ad effettuare la parte finale del tragitto previsto, naturalmente senza manette o catene.

Il Ministro di Giustizia e Sicurezza Ricardo Lewandowski, pur ribadendo di voler rispettare gli accordi sulle espulsioni stretti con gli Stati Uniti nel 2018, aveva poi ribadito come “qui vigono le leggi brasiliane, la Costituzione brasiliana, che esige e obbliga che i brasiliani e gli stranieri residenti in Brasile siano trattati con dignità e abbiano garantiti tutti i diritti fondamentali previsti nella nostra Magna Carta”, rispondendo in maniera indiretta alle lamentale degli espulsi, che denunciavano il trattamento “degradante subito fatto di insulti e aggressioni" e frutto, nelle parole di uno dei passeggeri del volo di “una mancanza di impegno verso gli altri esseri umani”

Memore di quanto appena avvenuto in Brasile, al Presidente Petro non restava quindi che accettare che un trattamento simile venisse applicato anche ai suoi connazionali o impedire l’atterraggio di due aerei provenienti dagli Stati Uniti; come sappiamo il Presidente colombiano, in carica dal 2022, ha scelto la seconda opzione, scatenando le ire del suo omologo statunitense, che nel giro di pochi minuti avrebbe affidato prima al suo social network Truth e poi ad una serie di comunicati della Casa Bianca una lista di minacce e ritorsioni, con l’imposizione di dazi doganali del 25% (che sarebbero saliti al 50% dopo una settimana) su tutti i prodotti colombiani negli USA, ma anche la revoca immediata dei visti per i funzionari del governo e l’imposizione di controlli doganali più rigorosi nei confronti dei cittadini colombiani.

Per confermare il tono largamente propagandistico delle azioni di Trump, basterebbe analizzare la controproposta di Petro, che non ambiva a sospendere i rimpatri, ma chiedeva semplicemente che venissero fatti attraverso voli civili e non militari, rispettando i diritti dei cittadini colombiani e rendendosi disponibile, in ultima istanza, anche a fornire un volo di Stato per provvedere al trasporto delle persone in Colombia.

Di fronte all’escalation trumpiana, inizialmente Petro ha scelto di rispondere con la stessa moneta, in una lunga replica, colma di retorica, affidata ai social network. Nel testo pubblico Petro arrivava a paragonare Trump “agli schiavisti bianchi”, annunciava di “essere pronto a morire per il suo paese, se con la sua forza economica e la sua arroganza” Trump avesse tentato “un colpo di Stato, come fatto con Allende” e soprattutto dichiarava che “la Colombia è aperta a tutto il mondo, a braccia aperte” e che avrebbe a sua volta imposto dazi del 50% su tutti i prodotti statunitensi.

Nonostante la retorica, tuttavia, nel giro di non molte ore la realpolitik e l’importanza del partner commerciale statunitense per l’economia colombiana hanno spinto il Presidente Petro a fare retromarcia, dato che 1/3 delle esportazioni del paese sono proprio dirette verso il vicino nordamericano. Ieri, martedì 28 gennaio, poi si sono effettivamente realizzate le prime deportazioni, grazie ad un volo di stato messo a disposizione dal governo colombiano.


L'influenza di Pechino

Una vicenda, insomma, nella quale Trump si è comportato letteralmente come un bullo, utilizzando il potere economico statunitense per imporre la sua volontà, riaffermando la sua immagine di “uomo forte” della politica mondiale e ottenendo comunque il risultato prefissato.

Al tempo stesso, il Presidente Petro, pur essendosi dovuto arrendere alle minacce, ha potuto presentarsi al suo paese e al mondo come grande difensore dei diritti dei migranti, in una vicenda politica nella quale la “performance” mediatica si sovrappone e acquisisce ancora più importanza della realtà delle politiche concrete.

La vicenda, tuttavia, ha riaperto due grandi domande di fondo: la prima riguarda quanto è lecito attendersi dalla politica internazionale di Trump, caratterizzata da una crescente aggressività. Ed è lecito chiederselo anche e soprattutto visto che questo trattamento è stato riservato alla Colombia, storicamente uno degli alleati, se non l’alleato principale, degli Stati Uniti nel cono sud.

Il secondo grande quesito, ancora più importante, riguarda il futuro degli equilibri del sistema di alleanze internazionali, che rischia di spostarsi ulteriormente verso l’altro grande attore, la Cina, che negli ultimi decenni ha accresciuto enormemente la sua presenza nella regione latinoamericana.

Ricordiamo infatti che, a partire dalla crisi globale del 2007-2009, la Cina è lentamente diventata il primo partner commerciale di Brasile, Cile, Perù e Uruguay e il secondo per molti altri paesi, arrivando a stringere accordi di libero scambio con Cile, Costa Rica, Perù ed Ecuador. Solo per citare alcuni dati, nel 2022 il valore totale del commercio tra Cina e America Latina e Caraibi ha superato i 450 miliardi di dollari, con i cinesi che importano principalmente minerali, semi oleosi e combustibili e oli minerali ed esportano soprattutto macchinari e attrezzature elettriche e meccaniche.

E proprio alla luce di questi dati e di una strategia di espansione cinese che non sembra destinata ad arrestarsi, è lecito attendersi che, a fronte delle crescenti tensioni con gli Stati Uniti, nella giornata di domenica i telefoni a Bogotà siano squillati insistentemente, con il prefisso internazionale cinese che deve essere apparso ed è destinato ad apparire sulle linee telefoniche di diversi paesi...

 

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