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L’Ucraina e la guerra dei Balcani: un salto all’indietro di 30 anni

di Marco Travaglini|


L’orrore della guerra che si combatte oggi in Ucraina trascina con dolore il ricordo di un altro feroce conflitto scoppiato in Europa trent’anni fa, quello dei Balcani. I calendari della storia cerchiano il 1º marzo: quel giorno a Sarajevo Ramiz Delalić, membro delle forze speciali, sparava su un corteo nuziale serbo a Baščaršija uccidendo il padre dello sposo e dando così inizio ad una valanga di scontri armati che travolse tutti e tutto nell’ex Jugoslavia, e in particolare in Bosnia ed Erzegovina, con l’assedio di Sarajevo (nella foto, di Paolo Siccardi). Eventi che Marco Travaglini racconta con l’apporto di una lente speciale: i libri di Luca Leone, uno dei più attenti conoscitori di quelle vicende.

Nella primavera del 1992, all’inizio del conflitto che sino alla fine del 1995 insanguinerà la Bosnia Erzegovina, Višegrad venne sottoposta a un intenso bombardamento da parte dell’esercito regolare jugoslavo. Ritiratesi le forze armate, millantando una situazione ormai sicura e sotto controllo, la cittadina della Bosnia orientale finì sotto il controllo di un gruppo paramilitare guidato dai cugini Milan e Sredoje Lukić, che inaugurarono un regime del terrore e dell’orrore. In pochi mesi la pulizia etnica ai danni dei musulmani-bosniaci, che costituivano i due terzi della popolazione locale, venne portata a termine con operazioni di rastrellamento, deportazioni, omicidi di massa e persino attraverso la combustione, in almeno due casi, di decine di civili all’interno di case private. Circa tremila persone vennero uccise e fatte scomparire. Lo stupro etnico ai danni di donne, bambini e uomini divenne pratica comune. Il fiume Drina mirabilmente descritto dal premio Nobel per la letteratura Ivo Andrić si trasformò nella più grande fossa comune di quella guerra. In “Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio” (Infinito edizioni) Luca Leone ha raccolto e raccontato questa terribile storia spesso dimenticata o taciuta. Un lucido reportage che, pagina dopo pagina, diventa una narrazione corale. Voci, storie, dolori e violenze che riempiono ricordi e incubi, le speranze riposte in una giustizia, che ancora non si è compiuta, prendono forma e aiutano a capire perché ciò che è iniziato a Višegrad è poi finito a Srebrenica in una sequenza terribile e disumana. Višegrad è un esempio terrificante di pulizia etnica e la cattiva coscienza di coloro che hanno troppi scheletri nell’armadio tende a giustificare la rimozione collettiva, motivandola con la pesantezza dei ricordi e del disagio che questi provocano. Alcuni capitoli sono come un pugno nello stomaco; duro, ma necessario. Il racconto, colmo di passione civile e preciso, quasi chirurgico nel mettere in ordine fatti e testimonianze, riporta al clima terribile di quei giorni e di quei mesi dove tutto iniziava: i furti, la distruzione sistematica delle proprietà dei cittadini bosniaci-musulmani, le torture e le sparizioni, l’omicidio e lo stupro di massa. È un orribile calvario quello vissuto da migliaia di persone sulla linea di confine tra la Bosnia e la Serbia. Un albergo può chiamarsi Vilina Vlas (“capelli di fata”, come nelle fiabe) e nascondere tra le sue mura l’orrore puro? A Višegrad è accaduto. È lì che avevano il loro quartier generale i “signori neri di Višegrad”, i cugini Milan e Sredoje Lukić. Due assassini e stupratori, condannati all’ergastolo e a 30 anni dal tribunale dell’Aja, che incutono ancora oggi timore al solo nominarli. In fondo da quelle parti, sulle sponde della Drina, è come se il genocidio continuasse. Per questo occorre non dimenticare e cercare di capire anche se è difficile. Verrebbe voglia di chiudere gli occhi e la mente davanti agli orrori narrati nel libro.

Ma bisogna sapere. Perché sulle terre di quella che un tempo è stata la Jugoslavia soffia ancora forte il vento del nazionalismo. E semina un po’ ovunque le spore del negazionismo. È pur vero che la guerra appartiene ormai ad un passato lontano ma il germe della violenza è ancora ben vivo e inquina la vita di tutti i giorni. Bisogna cercare “sotto al tappeto la polvere grigia del dolore e della tragedia che piedi nazionalisti hanno cercato malamente e vigliaccamente di nascondere, dopo aver dato fuoco alla stoppa ed essere rimasti a godersi, applaudendo, l’incendio”. Questi ventisette anni post bellici hanno visto di tutto: crisi economica, speculazione, aumento delle disuguaglianze, criminalità, corruzione. Accompagnate dalla mancata o ritardata e parziale giustizia, dall’impunità dei colpevoli alla frustrazione delle vittime, spesso obbligati – gli uni e le altre – a vivere fianco a fianco. Il potere costituito, quello dall’anima nera, vorrebbe dimenticare e far dimenticare cos’è accaduto. Cosa c’è di più catartico che omettere, nascondere responsabilità su crimini e aberrazioni? Il genocidio non avviene a caso, non è il frutto di un incidente, di un raptus dentro una logica violenta. Il libro di Luca Leone – insieme agli altri che ha dedicato con coraggio e impegno alle vicende bosniache – rappresenta un formidabile antidoto contro il negazionismo. Negli ultimi decenni i serbi bosniaci e la Serbia si sono impegnati a negare il genocidio, a classificare quello che è accaduto come uno dei tanti crimini che vengono commessi durante un conflitto. Così, il negazionismo è diventato una sorta di strategia di Stato. Qualcosa di simile ad una auto-assoluzione considerato il fatto che molti degli attuali politici sono le stesse persone che avevano qualche responsabilità o ruolo nell’apparato politico serbo all’epoca del genocidio. E la loro ideologia è ancora la stessa: un marcato nazionalismo che, negando i fatti, nega le proprie colpe e continua a provocare dolore e sconcerto alle vittime di tanta violenza. Il libro offre una documentata testimonianza corale di uomini straordinari come Amor Mašović ( il presidente dell’ente federale bosniaco per la ricerca delle persone scomparse), Rato Rajak – il sindaco di Rudo (“gigante dalle spalle un po’ curve e dalla mente illuminata”) – o l’ex generale Jovan Divjak, l’indimenticabile eroe serbo che difese Sarajevo, scomparso la scorsa primavera. Ma sono soprattutto le donne a lasciare un segno indelebile. Vittime ma anche testimoni determinate, inflessibili. Il dolore di Dzana, Lejla emerge, potente e drammatico, insieme al loro coraggio e a quello di tante altre donne. I racconti di Bakira Hasečić, la “lady Wiesenthal“ della Bosnia, lasciano senza parole. Una narrazione lucida, dolorosa, che strappa le parole e le memorie come pezzi dell’anima. Ogni ricordo è un morso nella carne. Con questo reportage Luca Leone – autore anche di “Srebrenica. I giorni della vergogna”, “Bosnia Express”, “I bastardi di Sarajevo” e molti altri testi tra i quali l’ultimo “La pace fredda. È davvero finita la guerra in Bosnia Erzegovina?” – si conferma uno dei più attenti e informati indagatori delle vicende sviluppatesi nel cuore della “terra degli slavi del sud”.

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