L'impulso della Chiesa torinese e la traduzione della politica
di Beppe Borgogno
L’incontro promosso martedì sera dall’Arcivescovo di Torino, Roberto Repole, con il sindaco di Torino Stefano Lo Russo e con il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio sul futuro del capoluogo piemontese merita un supplemento di riflessione sia per l'eco mediatica suscitata, sia per le motivazioni che hanno determinato la "discesa in campo" della Curia subalpina in una forma così netta e diretta sul tema del lavoro, e non solo, da riportare indietro con entusiasmo l'orologio della storia. Credo che da parte di tutti non vi siano stati dubbi sull’importanza dell'appuntamento, che non è esagerato definire necessario. [1]
Torino, ormai da tempo, è una città metafisica che procede sul filo nel vuoto, permanentemente sospesa a metà strada tra rilancio e declino, tra visioni futuristiche e nostalgie di vocazioni che nel passato l’hanno resa, come è stato detto nell'incontro, "attrattiva". Dalla crisi Fiat degli anni ’80 (la lotta dei 35 giorni e la marcia dei cosiddetti 40mila) fino una decina di anni fa, la città ha provato a inserire nello stesso contenitore, secondo l'antica vocazione che la vuole "laboratorio" politico, occasioni di crescita e di sviluppo, e il preesistente e collaudato patrimonio industriale e manifatturiero.
La trasformazione sociale e culturale, non priva di contraddizioni e di cui prima o poi bisognerà fare un’analisi approfondita, ha indiscutibilmente riportato o tenuto a galla la città, offrendo un argine al progressivo ridimensionamento industriale che insieme alla ricchezza, ma non ha potuto fronteggiare la riduzione di fiducia e di energia dei suoi abitanti, e la stessa resilienza della comunità nel suo insieme che nel frattempo è invecchiata in media più delle altre metropoli italiane. Tuttavia una ritrovata immagine culturale (Museo Egizio, Musei Reali, Mole Antonelliana, Museo Nazionale del Risorgimento, Gam, in primis) e sportiva (dai Giochi Olimpici Invernali e alla Atp Finals di tennis) ha fatto da impulso e volano al turismo, mentre centri scientifici e tecnologici, e nuove infrastrutture uniti a radicali interventi sul sistema viario (metropolitana, grandi opere) hanno dato respiro e permesso di esplorare orizzonti nuovi. E’ stata una lunga fase, certo non l’età dell’oro, ma con grandi aspetti positivi, resa possibile anche dall’essere riusciti a costruire una condivisione di obiettivi ed una rete capace di lavorare insieme per raggiungerli, in sintonia tra pubblico e privato.
Ora, quella fase si è in larga parte esaurita, ed è molto difficile ritrovare le stesse condizioni che permisero di aprire il percorso il cui passaggio decisivo furono le Olimpiadi del 2006. Non potrebbe essere altrimenti. Sono cambiati gli attori. Lo scenario è radicalmente mutato lo scenario. La politica ha perduto credito tra gli elettori che disertano le urne. E di riflesso i cosiddetti corpi intermedi (sindacati dei lavoratori e associazioni di categoria) hanno minore peso specifico per incidere sulle istanze della società. Infine, le risorse a disposizione degli enti locali si sono progressivamente ridotte. Fattori che hanno allargato il solco tra due città diverse, tra le periferie ed il resto. In questo spazio, in questa terra di nessuno, ha avuto buon gioco il disimpegno di Fiat-Fca-Stellantis da Torino, favorito anche dalla divisione sindacale su cui si è imposta - una sorta di ossimoro - la subalternità acritica, fatta eccezione per la Fiom-Cgil, di sindacati di categoria ai piani industriali (Fabbrica Italia) di Sergio Marchionne, che si sono rivelati l'anticamera della compulsiva desertificazione dell'automotive nel territorio (Mirafiori, Grugliasco) operata in questi ultimi anni.
Il momento di analitici approfondimenti non è ancora dietro l'angolo, ma qualcosa si può già dire. Per esempio che l’Italia è un Paese che da anni non ha una politica industriale - e per come è gestito lo stesso PNRR ne è lo specchio fedele -, che il senso di responsabilità e di appartenenza dei protagonisti della storia industriale non sono più gli stessi, e da questo derivano certamente alcuni effetti perniciosi su Torino. Ma anche che chi è stato protagonista della lunga fase a Palazzo Civico dagli anni ’90, non ha poi saputo ridare vigore ad una visione che stava declinando. Ultimo, ma non meno importante per le sue prospettive, la città ha subito nel quinquennio precedente il "non governo" della sindaca Chiara Appendino e del monocolore pentastellato che l'ha ulteriormente indebolita.
Andiamo all'oggi. In una quadro generale non rassicurante, la città non è rassegnata. Non lo sono le sue istituzioni, né i suoi cittadini, né la Curia di via Arcivescovado che, sulla scia dell'impegno di monsignor Nosiglia, il predecessore di Roberto Repole, dà impulso a una visione che sarebbe riduttivo definire cristianocentrica, se non altro per le parole che la Chiesa spende e gli atti con cui si spende per gli altri, indipendentemente dal credo. In questo contesto si inserisce, appunto, la discussione propiziata martedì scorso. E la ragione non va trovata soltanto nella tradizione del cattolicesimo torinese, dai Santi Sociali in avanti. In questi anni la Curia torinese ha occupato quegli spazi lasciati liberi da altri attori, in particolare la politica alle prese con la propria autoreferenzialità e la crisi di rappresentanza, fino ad essere in alcune zone esasperatamente critiche della città quasi l’unico luogo di riferimento e di mediazione per i cittadini, italiani e non. Segnali di coinvolgimento sociale per il richiamo ecumenico di quel senso di comunità su cui ha battuto monsignor Repole nei suoi interventi.
Interventi che tra le righe hanno comunque ricordato alla platea che la Chiesa non governa, che a essa non vanno delegati compiti della politica. Al contrario, è la politica che deve ridare ossigeno a quel circuito virtuoso di forza identitaria della propria missione per tornare ad essere il motore di quella rete propulsiva che ha sostenuto la città dall’ inizio degli anni ’90 fino a poco più di un lustro fa. Può farlo certamente utilizzando la collaborazione istituzionale, indispensabile, per affrontare le tante emergenze che si ha di fronte, ma senza rinunciare alla dialettica indispensabile che troppo spesso è mancata, in particolare sulla sanità e il welfare, come se Torino e i torinesi non pagassero, come gli altri piemontesi, il prezzo di scelte sbagliate o non scelte della Regione guidata da Alberto Cirio. O quella stessa dialettica (ed anche qualcosa di più) che deve esserci tra chi, anche dentro la maggioranza regionale, amplifica il consenso sui binari dell'emergenza, e chi invece deve sentire il dovere di sporcarsi le mani ed affrontarle per risolverle.[2]
Le differenze e la dialettica danno corpo ad una matura collaborazione istituzionale, e la rendono diversa dal non disturbarsi reciprocamente. Non viviamo nell’epoca dei Santi sociali che si accompagna alla nascita del movimento operaio. L’impegno della Chiesa per il lavoro non può essere quello del Cardinale Michele Pellegrino che negli anni Sessanta va davanti ai cancelli della Fiat, né i partiti e i sindacati di oggi sono quelli di allora. Ma se quello della Chiesa torinese è uno stimolo autentico, allora la politica deve dimostrare di essere all’altezza delle sue responsabilità, provando anche a riconoscere i propri limiti e darsi il coraggio indispensabile per giocare il ruolo che le spetta.
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