L'equivoco di Cirio sugli alpini e sulla Campagna di Russia
- Michele Ruggiero
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Aggiornamento: 2 giorni fa
di Michele Ruggiero

Il presidente della Regione Alberto Cirio ha posto ieri, 16 aprile, con la sua interpretazione della Campagna di Russia e della partecipazione delle truppe alpini, cui il Regio Esercito italiano prese parte a rimorchio della Germania nazista, dopo l'invasione nella domenica del 22 giugno 1941 con l'"Operazione Barbarossa", una questione non marginale rispetto al concetto di libertà e, per alcuni versi, anche di patria, di cui gli si può essere grati. Se non altro perché contribuisce a favorire la ricerca di chiarezza con il confronto, su alcuni punti storici velati, a nostro avviso, da equivoci che una parte politica preferisce mantenere in servizio permanente effettivo, per restare in ambito militare.
L'episodio, ricostruito succintamente su questo stesso sito[1], e accompagnato da una serie di condivisibili valutazioni, ha preso spunto dall'Adunata degli Alpini in programma a Biella dal 9 all'11 maggio. Appuntamento tradizionale per migliaia di penne nere, che non si sentono sicuramente "ex" nell'animo e nel senso di fraternità che ispira l'appartenenza a un Corpo dell'Esercito tra i pochi a non patire la riduzione ai minimi termini del ricambio generale per la soppressione dal 2005 del servizio obbligatorio di leva.
Oggi, il Comando delle truppe alpine (informazioni reperibili sul sito dell'Esercito)[2] si compone di due grandi unità di combattimento, ed è formato proprio da Brigate alpine storiche: la Julia, la Tridentina e la Taurinense, le prime due inviate sul fronte russo e protagoniste di celebri e stoici episodi di sacrificio per rompere l'accerchiamento del nemico, all'indomani del contrattacco dell'Armata rossa contro l'invasore italo-tedesco. In particolare, è noto il coraggio della Tridentina che perforò la linea russa nella famosa e crudele battaglia di Nikolajewka, il 26 gennaio 1943, preludio alla dolorosa ritirata, la strada del davai,[3] un'odissea che si consumò con la morte di migliaia di giovani e meno giovani, abbandonati all'estremo abbraccio della neve lungo la steppa.

Fu un epilogo diverso dai titoli dardeggianti di retorica con cui i giornali avevano annunciato prima l'invasione della Wermacht, e un mese dopo l'arrivo in Russia del CSIR (Corpo di spedizione italiano in Russia), per punire "il tradimento di Stalin", secondo le direttive editoriali imposte dalle veline del regime.[4]
Dunque, un'aggressione brutale dettata esplicitamente dal mancato rispetto degli accordi tra Hitler e Stalin, dopo che i due criminali si erano spartiti la Polonia nel 1939. In altri termini, come apparve agli italiani dagli editoriali dell'indomani il 22 giugno 1941,[5] una punizione esemplare, secondo il suo stilema, ordinata dal Führer e "approvata" dal suo fedele maggiordomo Mussolini, che aveva oramai rinunciato per manifesta impotenza alla guerra parallela.[6]
Quindi, non una battaglia per la libertà, come è stata rubricata (con sicura buona fede, ma arrotondata per eccesso) dal presidente Cirio, che su questa falsariga ha incorniciato la prossima adunata a Biella alla stregua di "un evento di popolo, ma anche di valori ed è il tributo ai tanti Alpini che nella Campagna di Russia hanno perso la vita per la nostra libertà". In quella campagna propagandata come una punizione, le forze armate italiane persero circa 85 mila uomini.[6] A migliaia furono presi prigionieri, molti morirono di stenti e patimenti nei campi di concentramento sovietici, i "salvati" rientrarono in Italia dopo molti anni e al termine di estenuanti trattativi tra i ministeri competenti.
Ancora all'inizio del 1954, i quotidiani lo resero noto il 3 gennaio, il Ministero degli Esteri confermò il rimpatrio (a scaglioni) dalla Russia di 28 militari e 6 civili, tra i quali il cappellano militare Giovanni Brevi, di Ronco Biellese. Due giorni dopo, il 5 gennaio, La Stampa di Torino pubblicò in prima pagina la foto della signora Caterina Pestarini di Novara, immagine-simbolo di quel dramma, che aveva salutato il marito Giuseppe Ioli nel 1942 ed era in trepidante attesa di "andargli incontro al confine orientale".
Infine, il discorso coniugato all'evento di popolo", ci indurrebbe anche a considerare l'idea di patria, se non fosse che le parole sono viziate dal peccato originale di una guerra d'aggressione al servizio di un regime liberticida e di una guerra, più di altre, da cui emerge il tradimento della patria e dunque del popolo, sacrificato a una camarilla criminale pronta a depredare i più deboli e a far pagare sempre agli ultimi l'oneroso costo alle proprie ambizioni.
Ultimo, ma non meno importante, è doveroso ricordare, al netto della condanna del regime sovietico sotto il tallone staliniano, l'enorme pedaggio subito del popolo russo, oltre 20 milioni di morti. Una cifra mostruosa, quasi la metà degli abitanti in Italia all'epoca, da cui l'Urss non ha arretrato per sconfiggere il nazismo, le cui armate della Wermacht furono ricacciate fino a Berlino, sino alla resa incondizionata della Germania firmata l'8 maggio 1945 dal maresciallo Georgij Konstantinovič Žukov e per i tedeschi dal comandante Wilhelm Keitel (tra l'altro uno dei generali che avevano pianificato l'attacco all'Urss, condannato a morte come criminale di guerra nel processo di Norimberga).
Al che, ma non ci si vuole nutrire del sospetto e sostare a lungo nella sua anticamera, c'è da domandarsi se nel centro destra non continui a sopravvivere il desiderio di resuscitare, soprattutto nelle "feste comandate" il famoso fattore K (kommunismus). Guarda a caso, si è proprio a ridosso del 25 aprile, della Festa della Liberazione, con cui gli italiani si liberarono del Fascismo e di Mussolini, che rimangono ancora per molti lo zenit dell'apprendistato politico della destra italiana.
Note
[3] Nuto Revelli, La strada del Davai, Einaudi
[4] La guerra alla Russia. Stalin aveva tradito: pagherà!, La Stampa 23 giugno 1941
[5] Alfredo Signoretti, Dall'equivoco alle estorsioni al tradimento, La Stampa, 23 giugno 1941. Nell'articolo si legge: "La guerra delle Potenze rivoluzionarie dell'Asse contro la Russia bolscevica ha tutti i crismi della fatale predestinazione sia nel campo delle idee sia nel campo degli interessi. Non poteva essere evitata se non ad una condizione, che il compromesso del 23 agosto 1939 avesse segnato l'inizio di un sincero, leale inserimento dello stato sovietico nel nuovo ordine europeo. La Germania ha fatto tutto quanto era umanamente possibile per favorire una simile evoluzione che sarebbe stata di vantaggio comune in quanto avrebbe concretata una cooperazione feconda senza bisogno dell'urto sanguinoso; ma furono tentativi illusorii pur nella loro generosità, perché ogni accordo, ogni intesa erano considerati a Mosca sotto l'aspetto di una utilità provvisoria...
[6]Mussolini visitò la prima Divisione motorizzata destinata al fronte russo il 26 giugno 1941 in una città della Valle del Po (non resa nota per motivi di sicurezza) insieme con il generale Ugo Cavallaro, Capo di Stato Maggiore Generale e il capo della Missione Militare germanica a Roma, generale von Rintelen.
[7] La Divisione Cuneense, con sede a Cuneo, è stata tra quelle con il maggiore numero di morti in percentuale: composta da oltre 17 mila uomini nel 1942, ne ritornarono in Italia appena 1.300.
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