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Beppe Borgogno

L'Editoriale della domenica. Torino ha bisogno di un leader, lo può essere Lo Russo?

di Beppe Borgogno


Le cronache degli ultimi giorni hanno offerto un certo rilievo ai dati forniti dal sindacato dei metalmeccanici CISL sulla produzione nelle fabbriche italiane del gruppo Stellantis: 475.090 unità contro le 751.384 dell’ anno precedente, con un calo del 36,8%. Dati confrontabili addirittura con il 1956, a quanto pare.

Naturalmente tutti sappiamo che sono dati da inquadrare in una crisi generale dell’auto, in tutta Europa, e da contestualizzare con le norme europee sul superamento dei motori termici e la transizione a quelli elettrici, le possibili multe alle case automobilistiche legate ai nuovi livelli di emissioni di CO2, la necessità di politiche e fondi europei, la concorrenza con la Cina: tutto vero.

Ma concentriamo per un attimo la nostra attenzione su Torino, sul suo passato ed il suo futuro. La Fiat del 1956 era un’azienda in grande espansione, che si candidava ad essere protagonista del miracolo economico italiano. Dalla secondo metà degli anni Cinquanta, infatti, lanciava alcuni dei modelli che l’hanno resa famosa nel mondo: la nuova 500, la 600, la 600 multipla, l'inedito monovolume dell’epoca. Nel settore aeronautico vedeva la luce il caccia G 91, "creatura" del geniale ingegnere Giuseppe Gabrielli (di qui la lettera G) che però avrebbe creato soltanto l'illusione che le industrie italiana ed europea più in generale avrebbero potuto soppiantare o competere con i velivoli statunitensi nelle forniture Nato.

La Fiat era quella del ragionier Vittorio Valletta, che l'aveva governata con polso fermo e ferma adesione al Regime fascista, mentre comandava il senatore Giovanni Agnelli, e che dal secondo dopoguerra imponeva ai governi la sua politica economica che gli veniva dettata dall'altra parte dell'Atlantico in chiave fortemente anticomunista. A Torino e dintorni, leggenda poi voleva - per chiarire i poteri di Valletta - che avesse detto a Giovanni Agnelli nipote, senza troppi preamboli, "decida, o comando io o comanda lei, in due non si può", ricevendo dal futuro "Avvocato", desideroso di godersi la vita, dopo i combattimenti in Nordafrica, l'arruolamento nella Divisione Legnano con il Corpo Italiano di Liberazione che risaliva l'Italia con gli Alleati, un comprensibile via libera...

Ma Valletta non era solo l’uomo dei grandi risultati, come anticipato sopra: la sua era una gestione  autoritaria, segnata  dalla repressione delle lotte sindacali che chiedevano condizioni di lavoro e di salario migliori, perché certo esse non progredivano in proporzione alla crescita dell’azienda.

Intanto Torino cresceva in modo disordinato sulla spinta dell’immigrazione dal sud, per passare dai circa 719.000 abitanti del 1951 al milione e 26.000di dieci anni dopo. Le lotte sindacali e quelle sociali, negli anni successivi, seppero unirsi per ottenere fabbriche e città più vivibili, condizioni di lavoro e di vita più accettabili.

E l'azienda, nel frattempo, crebbe contribuendo in modo decisivo a rendere Torino la “one company town” che abbiamo poi conosciuto, e quel protagonismo sindacale è poi diventato uno degli elementi fondamentali del nostro tessuto democratico.

Insomma, il 1956 e gli anni lì attorno, sotto ogni punto di vista, furono l’inizio di una storia, anzi di più storie, che ci hanno segnati fino ad ora. Quasi in ogni angolo della città, e persino in tanti aspetti delle nostre vite. Per pensare a che cosa possiamo avere di fronte oggi, richiamando quel passato, occorre prima vincere una piccola  vertigine. Naturalmente, nessun confronto  è possibile e nessuna ispirazione sarebbe credibile, ci mancherebbe. Ma pensare che siamo tornati ai numeri di allora fa un certo effetto.

La città nel tempo ha conosciuto meglio sé stessa e le proprie ambizioni, ha scoperto nuove ed importanti vocazioni, e ha già saputo superare almeno altre due crisi (ma forse meno acute di questa) legate all’auto, con la Fiat prima e con FCA poi. Ma quella domanda, cioè che cosa possiamo avere di fronte ora che la crisi della nostra grande manifattura si ripresenta con numeri inequivocabili, è sempre lì. Già, perché la crescita del turismo o le potenzialità dell’aerospazio non riescono a spegnere del tutto il campanello d’allarme. E perché l’innovazione (di cui Torino è stata recentemente nominata capitale) e la conoscenza siamo abituati, per cultura, a volerle sempre applicare a qualcosa di solido e di nostro, pur nel mondo dell’economia e della comunicazione globali. Avremo anche dimostrato di essere bravi, negli anni, ma quell’eterno “susseguirsi di allontanamenti e ricuciture”, come più volte osservato nei commenti, nella visione del futuro, come nella vita della città, alla lunga stressa persino un po’.

Il sindaco Stefano Lo Russo, nella recente conferenza stampa di fine anno, ha parlato di tante cose molto importanti che riguardano il futuro di Torino: i grandi cantieri in città, i grandi eventi, la qualità urbana, una più forte protezione sociale. E qualcosa ha detto anche su Stellantis,  a cominciare dalla  giusta preoccupazione per tutta la filiera dell’automotive, dicendosi pronto a vigilare sul rispetto degli impegni per Torino della nuova dirigenza dell’azienda, dopo gli annunci vuoti di quella precedente... Giusto, senza dubbio. 

Ora, abbiamo di fronte, a quanto pare, qualche altro anno di transizione: sarà così almeno fino al 2030. Finalmente, però, pare che cominci a crescere la consapevolezza che è indispensabile un piano europeo per l’automobile: un po’ tutti, in Europa, sembrano ormai convinti che non si possa rinunciare all’industria dell’auto e a tutto ciò che essa significa. Attraverso tutti i passaggi, le innovazioni e le trasformazioni necessarie, ovviamente: ma anche attraverso una politica condivisa e con il sostegno delle risorse indispensabili. Nemmeno Torino può rinunciare all’industria dell’auto. Ha imparato a diversificare i propri orizzonti e ad aprirsi a tante cose nuove, ma ancora non basta.

Il prossimo 5 febbraio, a Bruxelles, i sindacati dei metalmeccanici europei manifesteranno contro la deindustrializzazione e per una “transizione giusta”. Non sarebbe male se anche la politica si facesse vedere e sentire, per esercitare un ruolo ed un peso di cui talvolta si è sentita la mancanza.

E non sarebbe sbagliato se ci fossero anche i Sindaci delle città che, come la nostra, rischiano qualcosa. Per un giorno, forse, il luogo da cui vigilare sui destini di Stellantis, su cui Stefano Lo Russo si è impegnato, è proprio la capitale dell’Europa unita. Ogni tanto una comunità ha bisogno di un leader che “ci metta la faccia”, nel bene e nel male. Magari questa può essere l’occasione giusta.

Sempre nella conferenza stampa di fine anno, Lo Russo ha fatto un richiamo al nostro bisogno di infrastrutture e collegamenti veloci, altro tema che avrebbe bisogno di un rinnovato impegno della politica. La linea 2 metropolitana, per esempio, è la giusta risposta a tante chiacchiere sul destino delle periferie sud e nord, ma occorre procedere con celerità, a costo di battere i pugni sul tavolo, quando si tratta di finanziamenti del governo centrale.

Per tornare al 1956, in quell’anno si inaugurò il Traforo del Pino: ogni epoca, evidentemente, ha bisogno delle sue grandi opere per conservare la propria identità.

 

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