L'Editoriale della domenica. Significati del Sinodo "bocciato"
- Guido Tallone
- 1 giorno fa
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di Guido Tallone

Dal 31 marzo al 3 aprile 2025, in Vaticano, si è tenuta la Seconda Assemblea Sinodale della Chiesa Italiana alla quale hanno partecipato 1.008 delegati (530 laici e altrettanti circa tra diaconi, preti e vescovi). Il 95% di loro ha scelto di non approvare le 50 proposizioni del documento finale redatto per fare sintesi dei quattro anni di lavoro.
La dirigenza della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) l’ha definita un’Assemblea “vivace” per non dire fortemente critica, ma – per usare le parole di Monsignor Erio Castellucci, Presidente del Comitato – «Piuttosto che un’Assemblea sonnacchiosa, che non è interessata, ne preferisco una che critica. Per me questa è la sinodalità: confrontarsi liberamente senza preoccuparsi di ferire, magari anche di colpire chi ha lavorato ai testi».
Il testo - 38 pagine con 50 proposizioni - è stato definito dalla quasi totalità degli intervenuti (ci sono stati 51 interventi, ma si erano iscritti a parlare in 155): “blando”, “precotto”, “troppo sintetico”, “poco incisivo”, “clericale”, “con troppi auspici e poca incisività”, “poco coraggioso e inadeguato” (“non adeguato al cammino sinodale svolto finora né alla prospettiva della Chiesa chiamata a riforme decisive” ha dichiarato la teologa Serena Noceti). E così il testo è stato respinto al mittente con il compito di preparare una nuova base per il futuro documento da approvare.
E, come sempre succede, la vicenda ha creato schieramenti contrari e opposti. I conservatori (per usare un linguaggio mutuato dalla politica e comprensibile) hanno usato parole forti: “l’errore risale a monte: l’aver concesso a 530 laici frustrati la possibilità di trasformare il Sinodo in un’arena in cui le ambizioni personali e le opinioni soggettive prendono il sopravvento sulla missione primaria della Chiesa, ovvero l’annuncio del Vangelo. Era inevitabile che scattassero le solite proteste, così come era scontato che ricorressero ai media per piagnucolare e fare pressione.” (Silere Non Possum).
Nel nome della Tradizione della Chiesa
Sull’altro versante - possiamo chiamarlo progressista? - ci sono coloro che ritengono che alcune cose si muovono e che “finalmente, nella Chiesa si può discutere di tutto” anche di omosessualità o della condizione della donna nelle nostre comunità ecclesiali ed il fatto che un testo possa essere criticato, corretto e cambiato è la conferma che “si è all’interno di una grande crescita ecclesiale e che la sinodalità è stata assunta come modalità reale di lavoro”.
Gli addetti ai lavori non sono sorpresi da queste diverse prese di posizione. Anche perché è risaputo che per alcuni la Tradizione della Chiesa non può essere discussa, modificata, cambiata ed è considerata inamovibile. Per gli altri la Tradizione della Chiesa è composta da tante “tradizioni” (con la “t” minuscola) impastate con i tempi, con la cultura e con le vicende storiche di questo o quel momento che non solo possono essere modificate, ma che “devono” costantemente, rinnovarsi, cambiare, riformarsi e adeguarsi al nuovo che lo Spirito Santo suscita nella storia. Due esempi dalla cronaca del secolo scorso. Mia mamma non ha potuto partecipare a nessun battesimo dei suoi cinque figli perché, negli anni ’50, il rito dell’iniziazione cristiana veniva somministrato entro i primi dieci giorni di vita del bambino, ma la donna-mamma doveva - prima di entrare in chiesa - ricevere una speciale benedizione che di fatto, le impediva di partecipare al battesimo del figlio. Mio papà: alla fine degli anni ’40, quasi trentenne, è stato sorpreso, da suo padre, mentre leggeva il Vangelo. Per questo è stato duramente sgridato; il libro è stato sequestrato perché il Vangelo era considerato «libro proibito» e – dulcis in fundo – invitato a confessarsi (“Vatti a confessare. Lo sai che non puoi leggerlo!”).
Accogliere le sfide della storia
Oggi questi racconti suscitano stupore e persino incredulità. Fanno però parte della storia della Chiesa cattolica e rendono visibile quando benefico sia stato il Concilio Vaticano II a portare quella ventata di freschezza e di rinnovamento teologico ed antropologico che, non ancora del tutto assimilato, stiamo già dimenticando.
Quanto è successo ai primi di aprile a Roma è pertanto da considerare un piccolo-grande segno che ci aiuta a prendere coscienza che la chiesa di “ieri” (fatta di grandi numeri, di templi quasi sempre pieni e di cieca obbedienza al magistero), non esiste più e… non tornerà più. Siamo all’interno di cambiamenti epocali che investono e che travolgono anche le strutture storiche e culturali della chiesa cattolica. Illudersi di resistere a questo cambiamento per chiudersi in “recinti” riservati a pochi e per restare fedeli ad un passato perso per sempre, significa tradire il senso stesso di una chiesa che nel suo nome si presenta come “universale”. Molto meglio accogliere le sfide che la storia ci presenta per fare nostra la bella raccomandazione di san Paolo ai Filippesi: “In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri.” (Fil. 4,8s).
Il messaggio è molto chiaro: nessuno, su questioni che appartengono all’agire, ha la verità in tasca. Mai. La verità non si possiede, ma si cerca, possibilmente insieme e soprattutto “si fa” (Giovanni 3, 21) accettando il rischio dell’amore, del perdono e della rinuncia alla violenza. Da dove ricominciare? Dal tornare a cercare – insieme – tutto ciò che rende nobile, giusta, amabile e onorata la vita degli uomini. Senza paura di cambiare ciò che deve essere rinnovato perché “segnato” da concezioni, da usi, da linguaggi, da costumi e da tradizioni superate e che non possono più fare parte dei nostri pensieri.
Rivedere il ruolo dei cappellani militari
Un ulteriore esempio? La terza guerra mondiale “portata avanti a pezzi”, come ha profeticamente denunciato Papa Francesco, è sempre più immersa in quel gigantesco girone infernale di ingiustizie e di complicità di cui siamo tutti testimoni. Non mancano le parole (tante), le dichiarazioni di principio, le prese di posizioni, gli appelli, le marce e le doverose manifestazioni perché nel mondo prevalga la Pace sull’odio, sulle ingiustizie e sulle guerre. Ciò di cui molti avvertono il bisogno, all’interno della Chiesa Cattolica (di cui faccio parte) sono, però, anche alcune radicali testimonianze evangeliche da parte dei nostri vescovi sul tema della Pace. Mi riferisco al coraggio che prima o poi va preso per portare i preti che svolgono il ruolo di cappellano militare fuori dall’esercito. È dai tempi di don Milani che molti cattolici lo chiedono. Don Tonino Bello esortava: “Cappellani si, militari no”.
Il Coordinamento delle teologhe italiane, Pax Christi, il movimento Noi Siamo Chiesa, le Comunità cristiane di base e una serie di associazioni, gruppi e riviste fra cui Adista, il Cipax (Centro interconfessionale per la pace), il Centro italiano femminile, le reti degli omosessuali credenti hanno indirizzato una lettera - nel febbraio 2024 - al cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin e al cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana Matteo Zuppi per chiedere che la Chiesa cattolica rinunci ai preti-soldato, soprattutto in questo tempo di «guerra mondiale che stiamo attraversando».
Il Vaticano II ha usato, tra l’altro, parole che incoraggiano il cambiamento quando questo è utile o necessario: “la Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni.” (Gaudium et Spes n.76).
Costruire una vera cultura di pace
Anche il card. Repole, Arcivescovo di Torino, ha pronunciato parole forti e chiare sul fatto che mancano segni credibili per costruire una vera cultura della pace. Lo ha fatto alla Biennale Democrazia di Torino (28 marzo 2025) quando ha affermato che: “Sarebbe bello poter dire che questo nostro mondo ipertecnologico, iper-scientifico è capace di trovare soluzioni efficienti per la pace, ma non è vero, non le sta trovando, la tensione sta crescendo… Si mettono toppe agli scenari di guerra, si ragiona sulla deterrenza e ci si arma, ma percepiamo che i problemi restano sotto la brace e rischiano di ripresentarsi”.
La rinuncia, da parte della Chiesa cattolica, ai cappellani militari diventa una testimonianza evangelica più forte di tante parole o prediche. Anche perché ciò che molti chiedono è semplicemente che i preti restino al servizio anche dei militari, ma non parte dell’esercito con tanto di gradi, stellette e salario da parte dello Stato.
I nostri soldati hanno tutto il diritto di essere accompagnati spiritualmente da chi ritengono idoneo a svolgere questo compito. Ed è un dovere dello Stato creare le condizioni perché anche chi serve la Patria come militare possa accedere ai servizi religiosi inerenti al proprio credo. Chiedere però che le nostre caserme siano “servite” da preti, da parrocchie e da comunità cristiane in grado di sganciare questo ministero dall’istituzione militare non tradisce il Vangelo. Lo rende, al contrario, più credibile in un oggi intriso di guerre e da appelli teorici alla Pace che non riescono a diventare segni e gesti credibili. Si tratta, aggiungo, di una scelta che non ha bisogno di grandi argomenti per presentarsi come ragionevole, nobile, giusta, amabile e impregnata di virtù.
E dunque – prima o poi – da osare.
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