L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. Il sostegno alla maternità non diventi uno spot propagandistico
di Amelia Andreasi Bassi
In questi giorni stiamo osservando lo svilupparsi di una discussione molto partecipata sulla proposta inserita nella manovra economica del governo Meloni di creare una figura professionale che garantisca il servizio di accompagnamento delle neo-mamme all’accudimento dei figli nelle prime settimane di vita.
Una proposta che sembra aver intercettato da un lato la facile emotività che il tema della maternità immediatamente genera e dall’altro la fragilità delle giovani coppie di genitori che pur di fronte al crescere delle svariate incertezze in cui la maggior parte delle famiglie italiane oggi sono immerse, da quella ambientale fino a quella economica, lavorativa e perfino relazionale, decidono di avviare comunque un progetto genitoriale che le impegnerà per più lustri della loro vita.
Una decisione, dunque, quella di diventare genitori in questo contesto a cui il paese deve guardare con gratitudine, ma soprattutto con attenzione e serietà perché la precarietà esistenziale, la frammentazione dei legami sociali e la polverizzazione delle relazioni familiari, il crescente indebolimento del sistema di welfare, renderà il loro compito molto arduo e spesso solitario.
Ed è proprio dal punto di vista della serietà e della conoscenza del bisogno che occorre valutare la proposta governativa in discussione. Come si è detto sono davvero molte le voci ascoltate in questi giorni seppure caute nelle considerazioni viste le informazioni ancora parziali circa il contenuto del provvedimento. La più frequente delle osservazioni pone l’accento sulla scelta di definire la figura professionale “assistente materna” o “assistente alla maternità” la quale mettendo al centro solo la madre non solo esclude la funzione paterna, ma rivela al contempo l’impianto culturale di riferimento, ancora basato sulla divisione sessuale del lavoro che è esattamente quello che in tutto il mondo, da oltre un secolo, si sta invece cercando di cambiare proprio a partire dal rapporto tra lavoro riproduttivo e lavoro di mercato.
Rilanciamo il congedo parentale dei padri
Se nel lavoro e nella formazione le donne hanno fatto molti passi avanti contribuendo a far crescere la cultura della parità anche sul piano politico e sociale, molto resta da fare invece proprio rispetto al rapporto di coppia e del lavoro riproduttivo e di cura.
Più di vent’anni fa l’Unione Europea sostenne un progetto pilota, realizzato nel nostro paese per la promozione di pari opportunità dal titolo: “padri non solo per un giorno”. Era mirato ad individuare percorsi di avvicinamento e sostegno dei giovani padri nella funzione genitoriale. Percorsi che partendo dalla partecipazione emotiva espressa dagli uomini di fronte all’evento della nascita del figlio e che tende a scemare anche in breve tempo per lasciare il posto all’impronta ricevuta e fondamentalmente centrata sulla delega dei compiti accuditivi alla madre, li accompagnassero alla scoperta della funzione paterna e alla presa di coscienza e confidenza con le funzioni genitoriali che seguono l’evento della nascita.
Va detto che da allora la presenza dei giovani padri nella conduzione dei primi anni di vita del bambino è cresciuta in quantità e qualità, ma non in modo così ampio e diffuso come potrebbe e dovrebbe. I dati sull’utilizzo dei congedi parentali del resto lo confermano ampiamente visto che vengono richiesti solo per il 7 per cento.
Una seconda osservazione riguarda il profilo della nuova figura professionale e la sua integrazione con il sistema dei servizi già esistenti. Si sa in effetti molto poco per discuterne a fondo, ma è balzato agli occhi il periodo di formazione previsto in rapporto ai compiti assegnati: 6 mesi di formazione per un servizio che dovrebbe coprire l’accudimento quotidiano del bambino, l’osservazione della fisiologia ed eventuali interventi ritenuti necessari, l’emergenza, la rilevazione di sintomi di depressione della madre.
Collegare al nuova figura all'esistente
Non conoscendo i criteri di selezione previsti per l’accesso alla professione, né i requisiti di partenza e quelli finali e nemmeno il percorso formativo, non è possibile fare un’osservazione di merito ma certamente si può, anzi, ci si deve chiedere per quale ragione si sia scelto di creare una figura professionale nuova senza collegarla all’esistente.
Si tratta infatti di un investimento economico importante, tanto più in un quadro di carenze finanziarie come quello che caratterizza la definizione della manovra economica in corso. Alla figura descritta sarebbero, infatti, affidati compiti oggi svolti sia nei consultori famigliari che attraverso i servizi educativi dei Comuni e facenti parte della formazione di figure professionali quali l’ostetrica, la puericultrice, la doula.
L’ostetrica è una professionista sanitaria laureata e formata per l’assistenza alla donna in tutte le fasi della vita, dall’adolescenza alla gravidanza, al parto e al puerperio fino ai primi mille giorni di vita del neonato o della neonata ed ha anche formazione specifica sull’allattamento e sulle deviazioni fisiologiche. E’ in grado di operare misure d’emergenza nell’ambito della sua competenza o di indirizzare la coppia allo specialista. La puericultrice ha un diploma per conseguire il quale ha svolto periodi di tirocinio in ospedali pubblici, cliniche private, asili nido. Infine le doula si formano professionalmente con l’Associazione professionale Mondo Doula, non intervengono sul piano sanitario, ma affiancano la coppia nell’accudimento del neonato e della neonata anche fino al suo ingresso nella scuola dell’obbligo.
Tre figure professionali esistenti, diffuse su tutto il territorio nazionale, seppure con le evidenti disuguaglianze accumulate nel tempo, i cui compiti sono perfettamente integrati ed integrabili e in grado di accompagnare le coppie nella loro funzione genitoriale per un tempo sufficientemente lungo da rafforzare anche la loro capacità educativa. Perché di questo si tratta, non solo di assistere le giovani coppie, ma di formare genitori capaci di educare.
Potenziare i consultori famigliari
Dato l’esistente ci parrebbe semplicemente ragionevole e concretamente utile al paese potenziare la sanità pubblica ed i suoi 1800 consultori famigliari (numericamente sotto a quanto previsto dalla legge del 1996) pensati nel 1975 per tutelare e promuovere la salute della famiglia, per una paternità responsabile, per la salute dell’età evolutiva e dell’adolescenza e delle relazioni di coppia. Strutture con competenze multidisciplinari, in rete con i servizi socio sanitari del territorio e ospedalieri e le associazioni del terzo settore che operano per l’empowerment delle persone.
Di qui, l'attenzione a riconsiderare appunto l'esistente che non è pensabile, né auspicabile "rottamare". Ad oggi, infatti, i consultori familiari e le pratiche attivate con le loro reti territoriali rappresentano un patrimonio prezioso sia per l’esperienza accumulata sia per le ragioni di fondo della loro esistenza, che non sono residui del passato, ma fondamenti per sistemi sanitari del futuro pensati per promuovere la salute pubblica, qualsiasi nuova figura professionale ha un senso se posta in rapporto ai bisogni rilevati a partire da questa concreta quanto irrinunciabile realtà.
Nulla altrimenti sarebbe serio e si spiegherebbe se non in termini squisitamente ideologici.
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