L'editoriale della domenica. Gìsele Pelicot, il coraggio di esprimersi
di Maria Grazia Cavallo
Minuta, i lineamenti delicati, la gentilezza nel tratto e qualche accenno di sorriso per chi la sostiene. Il caschetto di capelli rossi e gli occhialini rotondi si appoggiano sul viso dolce, solcato da rughe che ci sembrano forse troppo profonde e premature anche per una settantenne.
Certamente Gisèle Pelicot è quanto di più lontano dall’archetipo della pasionaria femminista: del resto non c’è traccia di qualche militanza del genere nel suo passato. Eppure questa nonna di sette nipoti - che si era ritirata a godersi la pensione in un paesino della campagna avignonese - ha fatto una scelta rivoluzionaria che probabilmente cambierà il corso dell’impegno femminista d’ora in poi. Non a caso, il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron nel suo messaggio ha avuto parole d'orgoglio: "Hai ispirato la Francia e il mondo".
Infatti, la sua vicenda è nota da poco tempo, ma ormai diffusa a livello internazionale, tanto che oggi ella viene considerata fra le donne più influenti di quest’anno. Violentata nella sua camera da letto - a sua insaputa e per dieci anni - dal marito e da un numero imprecisato di uomini sconosciuti (si parla di 70, ma ne sono stati individuati soltanto 50) ai quali lui la offriva per filmare gli stupri.
L'antefatto
Tutto questo Gisèle non l’avrebbe mai saputo, se il marito non fosse stato arrestato per aver filmato con una telecamera nascosta due ragazze in un supermercato. Lei viene convocata dalla polizia, le domandano se si riconosce in alcune fotografie oscene che raffigurano una donna nuda in pose innaturali.
L’incredulità, lo stupore ed infine l’orrore: è certamente lei, che dorme nuda nella sua camera da letto. Poi le prove inconfutabili del baratro orrendo in cui il compagno di una vita l’ha scaraventata per soddisfare, attraverso il suo corpo, certe proprie laide perversioni. Lo ha fatto con altri predatori sessuali e c’è il dubbio che possa aver abusato anche della loro figlia.
Filmini catalogati di ogni tipo di violenza su lei inerme, materiale probatorio robustissimo. Un vortice di sconcerto, di dolore, di disorientamento, di indescrivibile umiliazione.
Il marito ammette di aver drogato per anni la moglie con pesanti dosi di farmaci nei pasti o nel gelato che le portava a letto tutte le sere, fino a renderla inerte. Lei si svegliava al mattino in pigiama, così come si era coricata, ma durante la notte veniva violentata da sconosciuti senza scrupoli, d’accordo col marito che filmava le violenze. Il marito aveva creato un sito dal nome esplicito: “a sua insaputa”, attraverso cui contattava soggetti a cui consentiva ogni abuso sull’ignara Gisèle; raccomandava discrezione e molte precauzioni di tipo igienico ai suoi “ospiti”, ma non chiedeva denaro. Dopo i fatti, lui lavava la moglie, la rivestiva e, all’indomani, lei si risvegliava senza alcun sospetto. Aveva frequenti amnesie, ma le attribuiva a un principio di invecchiamento mentale, mentre nessun allarme le era stato segnalato da parte dei medici, sulle sue frequenti patologie genitali.
Il processo
Gisèle si separa dal marito, ma decide di conservarne il cognome per tutta la durata del processo: questa scelta ha un proprio e ben intuibile perché. Il 2 settembre di quest’anno, quando comincia il giudizio contro Dominique Pelicot e cinquanta stupratori di Gisèle, lei compie una scelta spiazzante anche per i suoi difensori: rinuncia alla protettiva discrezione del processo a porte chiuse, a cui avrebbe diritto come vittima. Chiede invece la celebrazione a porte aperte.
Potremmo leggere questa richiesta come un coraggioso “contrappasso” simbolico rispetto all’oscurità di quella stanza in cui la donna era stata così vigliaccamente oltraggiata per anni. Volendone dare una lettura simbolica, forse è proprio per questo che Gisèle fa, per così dire, “spalancare” le porte della Corte d’Assise: perché era stata resa incosciente nella sua camera da letto, e durante gli stupri, si trovava mentalmente “altrove”.
Per lei vittima, a livello razionale, rendere pubblico il processo è importante affinché tutti possano vedere quegli uomini alla sbarra, osservarne le reazioni, sentirne le parole, scrutarne gli sguardi. Vuole che tutti possano seguire il processo e vederla - con la sua assertiva dignità e in presenza dei predatori - esigere giustizia.
La vergogna non è delle vittime, ma dei predatori
“Spesso quando si è vittime di violenza si prova vergogna, ma non siamo noi a doverci vergognare, sono loro”, ha dichiarato Gisèle. Per sintetizzare questo pensiero non avrebbe potuto trovare una frase più potente di questa: “La vergogna deve cambiare campo”. Perché nei casi di violenza sessuale avviene quasi sempre uno strano ribaltamento del senso di vergogna rispetto alla responsabilità. Per quanto possa sembrare irrazionale e incredibile, solitamente -nei processi per questa tipologia di reati e soltanto in questi - è la vittima a provare imbarazzo, disagio e timore nel raccontare quanto ha dovuto subìre da parte dell’aggressore. Come se si sentisse in qualche modo responsabile, come se si autoaddebitasse - attraverso giustificazioni che tenta di dare all’altro - la causa del gesto di cui quello dovrebbe vergognarsi. Gisèle sa che le cose vanno solitamente così, e dunque si propone come esempio anche per tutte le vittime che non trovano il coraggio di esprimersi e di denunciare: se lo fa madame Pelicot, anche altre donne la potrebbero imitare.
In questo modo Gisèle rafforza il proprio stare nel processo quale parte offesa e propone una narrazione diversa da ciò che ordinariamente accade. Non vuole sentirsi soltanto destinataria di protezione per la propria “vulnerabilità” (questo l’aggettivo tecnico), ma si propone quale coraggiosa protagonista del “J’accuse“ pubblico nei confronti dei predatori. Così dà assegnare maggior forza al suo essere vittima anche al cospetto della collettività. Che, seguendo la drammaturgia processuale, ha occasione di riflettere, di trarre spunti di riflessione.
La "cultura dello stupro" delle società occidentali
Attraverso questa apertura del processo alla società e di allertamento della sua attenzione, i cittadini possono acquisire sensibilità e consapevolezza di quanto sia devastante, ed anche quanto sia radicata - ancora oggi, nelle nostre evolute società occidentali - la cosiddetta “cultura dello stupro”.
Essa deriva da portati ancestrali: dalla concezione proprietaristica del corpo della donna da parte dell’uomo. Del resto, nel processo di Avignone, molti degli imputati hanno cercato di difendersi sostenendo di avere il consenso del marito a violentare la donna: a loro, evidentemente, tanto bastava. Senza neppure porsi il problema del consenso di lei, che pur non era visibilmente in grado di esprimere alcuna volontà. Un modo di difendersi coerente con la vigliaccheria della predazione agìta. Ma che dimostra come, dalle radici profonde della nostra cultura occidentale e progressista - che nelle sue istanze più nobili persegue l’obiettivo dell’assoluta parità di genere - continui a riemergere questa inaccettabile concezione di proprietà del corpo femminile, di asimmetria, di prevalenza dell’istinto e del più forte sul più indifeso e, particolarmente, sulle più indifese. Perché lo stupro in ogni sua forma - quello di guerra, quello predatorio e occasionale, quello all’interno di una relazione stabile - è sempre un’affermazione violenta di dominio sulla donna, un diritto di usarne il corpo a prescindere dal consenso di lei.
Un altro aspetto che si può cogliere nelle difese di alcuni degli stupratori è quello dell’autocommiserazione: il raccontare la loro scelta libera - cioè: di persone capaci di intendere e volere e di stare in giudizio - di violentare una donna inerme come l’effetto di un loro passato di violenze subìte. Non che ciò non sia anche, in parte, vero: le scienze psicologiche ci insegnano che spesso gli abusanti hanno alle spalle un vissuto di abusi perpetrati contro di loro. Ma questo ci dice anche quanto lavoro si debba ancora fare per portare alla luce e sradicare la violenza profondamente nascosta all’interno delle famiglie. Quella così “normalizzata” dalle tradizioni, dalle narrazioni, dai riti e dalle consuetudini della nostra società contemporanea, da essere quasi “invisibilizzata” o banalizzata e - in qualche modo e in una certa misura – di fatto “tollerata” come inevitabile, inestirpabile, incorreggibile.
Un prima e un dopo
E’ stato scritto che la straordinaria partecipazione della gente e la diffusa attenzione mediatica alla vicenda umana e processuale di Gisèle potrebbero segnare “un prima e un dopo” rispetto all’attenzione culturale e giuridica verso le vittime di stupro. La signora Pelicot ha illuminato l’oscurità che protegge situazioni di violenza familiare, molto diffuse laddove è così difficile indagare.
Ha realmente spiegato - attraverso le sue lucidissime parole e con l’esempio - quanto sia giusto, anche se drammaticamente difficile, riconoscere, denominare, dominare e deviare da sé stessa l’istinto della vittima a ripiegarsi sul proprio dolore e sulla propria sulla propria vergogna. Quanto sia doveroso attribuire con nettezza e senza alcuna esitazione quella vergogna a chi merita di provarla.
Ha dimostrato quanto questo suo gesto, emotivamente fortemente impegnativo, fosse necessario e utile a tutti. Riaffermando la convinzione che il personale è sempre anche politico.
C’è ancora molta strada, in salita, da fare. Ma abbiamo l’energia per percorrerla tutti assieme.
Coraggiosa Gisele
Impegnata e decisiva ,tu M.aria Grazia .
Ce ne vorrebbero tanti di commenti come i tuoi! Tanti da parte di tante donne " "sonnacchiose" che si appagano di commenti relativi a ben altri argomenti,,,,