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Stefano Marengo

L'Editoriale della domenica. Gaza: i tanti punti interrogativi di una tregua ancora in bilico

Aggiornamento: 1 giorno fa

di Stefano Marengo


Non c'è ancora pace a Gaza, mentre si pubblica con l'occhio alle agenzie. Le forze armate israeliane hanno ripreso i bombardamenti da terra e dal cielo con l'uso di droni. Nove i morti tra la popolazione nella Striscia. E' l'effetto di un inatteso stop imposto dallo slittamento della tregua per il mancato rispetto dell'accordo, come ha annunciato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, puntando il dito sulle responsabilità di Hamas che non ha presentato l'elenco degli ostaggi da rilasciare. Affermazione confermata, secondo fonti di agenzia, dalla stessa organizzazione palestinese, che ha ammesso il ritardo dovuto a “motivi tecnici”. L'applicazione dell'accordo era prevista per oggi, 19 gennaio, alle 8,30 ora locale (le 7,30 in Italia).




Ritiro graduale, ma totale dell’esercito dalle aree occupate e, nella prima fase, liberazione di diverse centinaia di prigionieri politici palestinesi in cambio del rilascio di 33 dei circa 50 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. È così che l’accordo per il cessate il fuoco a Gaza - in attesa del segnale di verde - ha messo nero su bianco i termini di una palese contraddizione storica per Israele. Infatti, dopo 471 giorni di bombardamenti a tappeto e devastazioni indiscriminate, dal massacro subito il 7 ottobre del 2023, Tel Aviv deve fare i conti con il fatto di non aver conseguito nessuno degli obiettivi dichiarati all’inizio della guerra e di ritrovarsi in una zona d’ombra strategica (e politica) la cui estensione è ancora difficilmente calcolabile.

Il ricorso alla forza militare non ha condotto alla liberazione dei prigionieri israeliani né, tantomeno, ha piegato la resistenza palestinese. A sottolinearlo, a suo modo e con i distinguo dovuti al ruolo in scadenza, è stato il Segretario di Stato USA Antony Blinken, secondo il quale Hamas, per tutta la durata delle ostilità, è stata in grado di sostituire i caduti reclutando via via sempre nuovi combattenti. È infatti proprio sulla solidità della resistenza palestinese che si sono infrante le illusioni della leadership israeliana, che oggi si trova a dover prendere atto che né il massacro della popolazione civile, né le uccisioni dei capi di Hamas – Ismail Haniyeh e, soprattutto, Yahya Sinwar – hanno compromesso in misura sensibile la tenuta politica – aspetto prioritario - dell’organizzazione.

In termini più generali, i bombardamenti su Gaza e il tentativo di rioccupare il Libano meridionale, uniti alla mano libera concessa ai coloni in Cisgiordania, si sono rivelati un boomerang per il governo israeliano, che nel mostrare i muscoli ha reso evidente il progetto coloniale sionista, che una parte dell’opinione pubblica internazionale aveva rifiutato di vedere a partire dall’immediato secondo dopoguerra, quando i militanti delle organizzazioni Haganah, Irgun e Lehi (Banda Stern) erano considerati terroristi e impiccati dalle autorità britanniche per gli attentati compiuti ai danni della popolazione palestinese. Paradossalmente, a voler formulare un giudizio cauto e prudente, anche nel rispetto per le vittime del 7 ottobre, si dovrebbe come minimo affermare che l’immagine dello Stato di Israele, punteggiata da Netanyahu, è oggi molto più fragile di quanto non fosse un anno e mezzo fa.

Del resto, se già dopo le prime settimane di intervento militare a Gaza diversi commentatori avevano osservato che Tel Aviv stava perdendo “la guerra delle pubbliche relazioni”, dopo quindici mesi di guerra ininterrotta è ormai chiaro che il Sud globale guarda Israele con sospetto e ostilità ed è sempre meno disposto a tacere di fronte alle riluttanze dei governi occidentali a prendere posizione. Riluttanze che si sono trasformate in ipocrisie e che, nonostante l’informazione a senso unico o quasi sui canali mainstream, proprio in Occidente sono state denunciate da migliaia di piazze solidali nei confronti della causa di liberazione palestinese, in una mobilitazione di cui si fatica a trovare precedenti negli ultimi venti o trent’anni.

Di non secondaria importanza, a questo riguardo, rimane la constatazione che ad animare le proteste contro la guerra, soprattutto nel mondo anglosassone, siano stati migliaia di cittadini di religione ebraica, per lo più giovani, il che dà un’idea piuttosto precisa di quanto l’immagine di Israele sia oggi compromessa. A tal proposito, è interessante osservare come, secondo un recente sondaggio commissionato dallo stesso esecutivo di Tel Aviv, il 66% degli ebrei americani di età compresa tra i 14 e i 18 anni abbia dichiarato di simpatizzare con il popolo palestinese, mentre il 36,7% abbia indicato di sostenere Hamas; il 41% degli intervistati ritiene inoltre che a Gaza sia stato commesso un genocidio. [1] Numeri del genere, in un passato non certo remoto, sarebbero stati semplicemente impensabili.

A completare il quadro, e a rendere ancora più oscura la zona d’ombra in cui Israele è venuto a trovarsi, ci sono poi i rapporti delle più prestigiose organizzazioni umanitarie internazionali che denunciano la sistematica violazione, a Gaza, dei diritti umani basilari, i mandati d’arresto spiccati dalla Corte penale internazionale all’indirizzo di Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Yoav Gallant, accusati di crimini di guerra e contro l’umanità, e infine il deferimento di Israele alla Corte internazionale di giustizia, di fronte alla quale dovrà rispondere proprio dell’accusa di genocidio.

Tuttavia, pur a fronte di tutti questi elementi, non bisogna illudersi che il cessate il fuoco su Gaza condurrà in tempi rapidi alla fine della violenza, e ancora meno ci si deve attendere l’avvio di un percorso politico-diplomatico che finalmente affronti con serietà la questione palestinese. Lo stesso Netanyahu sa bene che, fino a quando Israele potrà contare sull’incondizionato sostegno statunitense - domani ci sarà l'insediamento di Donald Trump - , le contraddizioni del presente rimarranno in qualche modo limitate e, soprattutto, a Tel Aviv verrà ancora concessa mano libera su altri fronti. È per questo che il premier può ancora permettersi di dare poco peso all’opinione pubblica internazionale. A preoccuparlo, semmai, sono gli orientamenti, mai così divergenti, di diversi settori dell’opinione pubblica interna.

Il suo governo si trova oggi preso in mezzo a spinte contrapposte. Da una parte, una porzione della società civile israeliana – le componenti più laiche e secolarizzate, a cui si aggiungono verosimilmente alcuni settori delle forze armate – si è resa conto che Gaza costituisce un vicolo cieco. Da qui la richiesta sempre più pressante per addivenire a un cessate il fuoco che conduca al rilascio dei prigionieri del 7 ottobre e metta fine a un’avventura bellica che ha già avuto pesanti ricadute sull’economia, sul benessere e sull'identità e sui sistemi valoriali del paese.

Dall’altra parte della barricata c’è invece l’estrema destra oltranzista e messianica, con il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, leader del partito Otzma Yehudit, che annuncia le dimissioni dal governo e vellica ogni giorno il revanscismo del movimento dei coloni, convinto che il proseguimento indiscriminato del conflitto sia l’occasione per annettere nuove terre e costruire la “Grande Israele”. Il peso di queste componenti estremiste non può essere sottovalutato, ma soprattutto non bisogna dimenticare che moltissimi coloni sono stati addestrati e armati su iniziativa dei loro rappresentanti politici, con il risultato che è diventata tutt’altro che peregrina l’ipotesi che, in circostanze complesse come quelle odierne, possano diventare una seria minaccia interna per la stessa Israele. Non a caso, ieri, 18 gennaio, il quotidiano liberal Haaretz ha lanciato l’allarme sul tentativo di sabotaggio dell’accordo di cessate il fuoco coltivato dagli estremisti, cui si contrappongono le manifestazioni che prendono corpo nel paese per ottenere il rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza.

L’atteggiamento tenuto negli ultimi giorni da Netanyahu sembra un tentativo affannoso di uscire dal vicolo cieco in cui è rimasto intrappolato. Un tentativo che potrebbe concretizzarsi, per un verso, distraendo l’opinione pubblica dal fallimento della guerra a Gaza attraverso l’accordo sul cessate il fuoco, e per l’altro fornendo all’estrema destra precise rassicurazioni che non verrà meno l’impegno militare sugli altri fronti, ossia in Cisgiordania, Libano e Siria. Va letto in questa chiave il fatto che, nel momento stesso in cui veniva raggiunta l’intesa su Gaza, l’aviazione israeliana scatenava un nuovo bombardamento su Jenin, il cui vicino campo profughi ospita 10mila palestinesi.

Beninteso, quella appena formulata è soltanto un’ipotesi di scenario. Nei prossimi giorni e settimane bisognerà capire se il governo avrà ancora i numeri per rimanere in carica o quali alternative si affacceranno all’orizzonte. In ogni caso, anche tenendo conto di questi e altri aspetti, primo tra tutti la frammentarietà e precarietà degli equilibri politici israeliani, lo scenario abbozzato rimane il più verosimile.

Ciò che è certo, invece, è che a uscire rafforzata da tutte queste vicende è la causa palestinese, la cui resistenza ha dimostrato di essere ineliminabile, profondamente radicata nel popolo e nelle sue aspirazioni alla libertà, alla giustizia e all’indipendenza, e perciò capace di far arretrare, come insegna la storia, un nemico all’apparenza soverchiante. Che conseguenze produrrà in concreto tutto ciò? Quali riflessi avrà sulla popolazione palestinese della Cisgiordania, di Gerusalemme e dei campi profughi disseminati tra Giordania, Siria e Libano? Ne risulteranno nuovi equilibri politici e militari tra le forze palestinesi? Si riuscirà infine a mettere da parte chi, come Abu Mazen e la sua ANP, è irrimediabilmente compromesso con l’occupazione israeliana e privo di consenso a livello popolare? È impossibile in questo momento dare risposta a tutte queste domande. Ciò che invece si può sostenere è che, d’ora in avanti, saranno destinati a cadere nel vuoto i tentativi di delegittimare la resistenza. Essa si è legittimata da sola, sul campo, e da sola si è conquistata il diritto di provare a scrivere una storia diversa per il proprio popolo.


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