L'Editoriale della domenica. Ferrovie in tilt, ma Salvini non c'entra mai...
"C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d'antico: io vivo altrove, e sento che sono intorno nate le viole". Chi non ricorda la prima terzina della poesia, una delle più famose di Giovanni Pascoli, l'Aquilone? Difficile dimenticarla per quella struggente nostalgia che chiedeva strada nell'animo, nonostante fosse percepito un desiderio di allontanarsi dall'ineluttabile, da ciò che la vita, anche se in forme diverse, ripropone sempre allo stesso modo: nuovo e antico, nel dolore pascoliano come nella mediocrità dell'oggi. Cosa c'entra Pascoli?, ci si domanderà. In effetti, la risposta ha più di un motivo per rimanere sospesa, se non fosse per l'istintiva associazione, inizialmente trattenuta per rifiuto della polemica preconcetta, poi liberata con indignazione sempre più profonda mano mano che procedevano le notizie sul caos registrato ieri, sabato 11 gennaio, nel trasporto ferroviario, tra ritardi e cancellazioni, disagi individuali e collettivi, fastidi trattenuti e rabbie esplosive.
Fin qui, si dirà, il nuovo coincide con quanto di più antico si è abituati nel nostro Paese. Perché indignarsi?
Invece, qui, la risposta c'è e non è sospesa nel vuoto, ma cade tristemente a terra come l'aquilone di Giovanni Pascoli, non appena insieme con la vicenda delle ferrovie alla paralisi, si registrano le spiegazioni di Matteo Salvini. O meglio le scuse usate come clava verso terzi del vice presidente del Consiglio e ministro dei Trasporti. Una vice presidenza di cui non ci si è ancora accorti, per la verità, talmente è oscurata da "Io sono Giorgia, donna, madre, cristiana", e un dicastero di cui quotidianamente si scopre l'elevata autoreferenzialità con cui il titolare gestisce la comunicazione.
Così ieri, nel "sabato nero" per i trasporti, Matteo Salvini ha mandato in onda il solito cinema, con i soliti titoli di apertura e di coda, pause pubblicitarie incluse, protagonisti i governi precedenti responsabili del degrado pregresso, i sindacati di sinistra che proclamano gli scioperi, i lavori per il PNRR. In altre parole, è sempre colpa degli altri. Anche quando si è adulti, e non più adolescenti, quando è umanamente comprensibile il timore dell'assunzione delle proprie responsabilità.
Non una parola ha speso Salvini per i due anni e più trascorsi a vellicare gli italiani con il sogno del Ponte sullo Stretto, mentre la Sicilia continua a viaggiare a un solo binario e vive in condizioni di arretratezza del sistema viario più complessivo; a illudere il Paese più con l'uso del tempo futuro che con certezze al presente, ad eccezione del Codice della Strada, che minaccia la legge del taglione agli automobilisti, mentre le istituzioni non riescono a riscuotere neppure le multe per divieto di sosta; a stigmatizzare l'operato della magistratura, senza mai una parola sincera verso chi muore in mare, costretto a fuggire da situazioni drammatiche a cui in molti governi occidentali concorrono, incalzare palazzo Chigi per ritornare al Viminale, al Ministero dell'Interno, tra l'imbarazzo silente dei suoi alleati che si domandano per quale motivo non provi a dimostrare di fare bene il suo mestiere, anziché mettere il naso in quello degli altri e ingenerare confusione nel governo, che già non brilla per efficienza.
Si legge e si ascolta che la Lega fa quadrato, come il 7° cavalleggeri con il generale Custer, attorno a Salvini. Difesa ad oltranza che non è nuova, ma soltanto antica. Come le ragioni per non chiedere mai scusa.
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