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L'Editoriale della domenica. Democrazia in allarme: Meloni ritorna alla carica sul premierato

Giancarlo Rapetti

di Giancarlo Rapetti


Puntuale come la scadenza di una cambiale, quest'ultima parola praticamente scomparsa dal nostro lessico pur esistendo, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni è ritornata con un video su “X” a parlare di premierato che, all’opposto, non esiste nel lessico istituzionale del nostro Paese.

Ma, come ha spiegato la leader di Fratelli d’Italia, “la stabilità è fondamentale per dare alla nazione una visione, un'autorevolezza, una centralità internazionale, una politica che costruisca per il futuro, invece che limitarsi ad accaparrare consenso facile nel presente. Ecco perché la riforma del premierato, che intanto procede in Parlamento, la considero fondamentale per l'Italia”.

Così fondamentale che, nonostante Giorgia Meloni, intervenendo al congresso di Azione, si sia esibita in riconoscimenti all’avversario e in disponibilità al confronto sul merito di alcuni problemi, sull’argomento premierato tira diritto. Fondamentale, anche se la proposta di premierato è del tutto estranea alla cultura politica dell’Italia democratica e repubblicana (e delle altre democrazie occidentali). A cominciare dalla parola stessa premier, che si traduce in italiano Primo Ministro, termine che non figura in alcuna norma regolatrice delle nostre istituzioni. Infatti, da noi esiste il “Presidente del Consiglio del Ministri”.

Ora è invalso l’uso, da parte di giornalisti e politici, anche di opposizione, di utilizzare la parola premier per indicare il Presidente del Consiglio. Si tratta di un innocente artificio linguistico per ragioni di brevità o per evitare ripetizioni? Forse. Per alcuni certamente. Ma i risultati vanno oltre le intenzioni. L’opinione pubblica si assuefà alla definizione e quando il premierato diventerà legge, il senso comune si sarà adeguato e la cosa sembrerà naturale. Non vale l’obiezione che nel ddl Casellati il termine premierato o premier non c’è. Vero, tant’è che un grande interprete dei tempi come Bruno Vespa disse una volta in televisione che in fin dei conti si tratta di una riforma minimale (“il minimo sindacale”) proprio perché il termine Presidente del Consiglio non era sostituito da Primo Ministro.

Conta la percezione pubblica: quando “la madre di tutte le riforme” avrà concluso il suo iter parlamentare, sarà così naturale immaginare il capo dell’esecutivo stagliarsi come primo, come capo appunto, che tutte le obiezioni sembreranno nostalgie di un passato superato. E saremo passati con naturalezza dalla democrazia alla post-democrazia. Varrà la pena di ricordare, a futura memoria, che cosa propone, nell’essenziale, il ddl Casellati. Quando si va a votare, l’elettore trova una sola scheda e può esprimere un solo voto, scegliendo il preferito tra i candidati Presidenti del Consiglio. Il candidato che ottiene più voti (ovvero la maggioranza relativa) diventa Presidente del Consiglio e ai candidati parlamentari delle liste a lui collegate è assegnato automaticamente il 55 per cento dei seggi. Se il parlamento sfiduciasse il Presidente del Consiglio, o quest’ultimo venisse a cessare per qualunque motivo, si ritorna a votare.

Come si vede, scompare la funzione del Presidente della Repubblica e il Parlamento cade nel gioco dei ricatti reciproci: o subisce i diktat del Presidente del Consiglio, o decide il proprio scioglimento; un caso di suicidio, neanche assistito. Inutile notare che il singolo parlamentare, che ha ottenuto lo scranno con soldi, lavoro e fatica, non vorrà rinunciare facilmente al risultato raggiunto e sarà quindi disposto a far passare qualunque cosa il Governo proponga. Solo nel caso di clamorosi conflitti, è possibile (anche se non probabile) che il Parlamento ritrovi la propria dignità e sfiduci il Presidente del Consiglio. Ma sarebbe il canto del cigno di un organo che contestualmente decade.

Questa minaccia incombente sulla democrazia rappresentativa è vista con sufficienza, con distrazione, o con sottovalutazione, da gran parte del ceto politico. Figurarsi se ci si preoccupa della parola premier. Eppure, se si continua ad usarla, quando Giorgia Meloni diventerà tale de jure, mentre adesso si limita comportarsi come se lo fosse, la parola sarà così familiare da diventare ineluttabile. E pensare che una circolare di Palazzo Chigi ordina di chiamare Giorgia Meloni “Il Presidente del Consiglio”; si può obbedire, oppure fare i puristi della lingua e chiamarla “La Presidente del Consiglio”, come suggerisce l’Accademia della Crusca. Evitiamo che i nomi causino le cose.

Giorgia Meloni non perde occasione per ribadire che il premierato è il suo obiettivo strategico. Perché non si dovrebbe crederle? Prendiamo consapevolezza che si tratta di una partita decisiva, che va preparata, spiegando e rispiegando alla pubblica opinione quale è la posta in gioco. Si parte da una situazione svantaggiata. I sondaggisti dicono che ormai è opinione prevalente che le elezioni servono a scegliere non i rappresentanti dei cittadini, ma il governo, titolare di una delega illimitata in bianco (il famoso programma, che solo il governo stesso è abilitato a interpretare). Questo spiega il più stravagante dei paradossi: Giorgia Meloni afferma, a sostegno della sua riforma, che restituisce ai cittadini la possibilità di scegliere chi governa, proprio mentre li espropria della rappresentanza e li lascia nudi di fronte al potere. Ci vorrà un lavoro ostinato, capillare, determinato, coerente ed efficace, per non arrivare all’ipotetico referendum confermativo nel silenzio, nell’indifferenza o nella rassegnazione.


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