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Guido Tallone

L'Editoriale della domenica. Carceri: giustizia è perdono, perdono è giustizia

di Guido Tallone


Le tante attenzioni di Papa Francesco al mondo carcerario (l’ultima in ordine di tempo l’apertura della seconda Porta Santa del Giubileo 2025 nel carcere romano di Rebibbia) in alcuni suscitano “tenerezza” intesa come ammirazione per la sua ostinata fedeltà agli ultimi e il desiderio di ricordare al mondo intero che la strada maestra per la propria realizzazione è la via della bontà. Altri sono irritati e ritengono questo insistere di Papa Francesco su prigioni e detenuti “eccessivo”: “in fondo se sono dietro le sbarre non è certo perché sono stati sequestrati dalle forze dell’ordine!”.

Più in profondità – però – ciò che i discorsi, i segni e la prassi di Papa Francesco comunicano con questo suo costante e continuo incontrare detenuti e guardie carcerarie, non è una svista dovuta a una attenzione solo “sua” (che irrita chi non è dotato di questa sensibilità) e nemmeno uno “sguardo buono” che tutti dovremmo attivare verso chi sta male. Papa Francesco sa molto bene che nelle strutture carcerarie (di oggi, ma anche di ieri, dell’Italia, ma di ogni Paese del mondo) è presente la visione di giustizia che guida il convivere sociale e che condiziona la totalità delle istituzioni che formano un Paese.


Sistema carcerario e livello di democrazia

A mo’ di slogan potremmo dire: “Dimmi come sono le prigioni e ti dirò come si vive in quella Nazione”. Significa che tra il tessuto sociale e i luoghi deputati a scontare la pena detentiva sussiste una profonda e inevitabile contaminazione che evidenzia e illustra come, in quella società, venga intesa la giustizia e come questa sia poi declinata sul piano culturale, sociale, educativo, relazionale e, ovviamente, anche sul versante penale.

E la visione di “giustizia” che Papa Francesco si augura che venga assunta dai nostri Stati democratici è quella indicata dal Giubileo della Speranza (insolita per la nostra mentalità!) che salda il tema della giustizia alla pratica del perdono rendendoli elementi inseparabili.

Testimoniato nel III millennio a.C. in Mesopotamia e nel II millennio a.C. in Siria, l’istituzione del Giubileo è stata poi assunta anche dal popolo di Israele e prevedeva l’idea di un anno di perdono e di remissione dei debiti (annullamento dei debiti, dei pegni e dei contratti fra privati all’interno di precise scansioni temporali) finalizzati, da una parte, a ricostruire equità in un percorso storico che aveva generato diseguaglianze. Dall’altra parte per restituire proprietà a quanti avevano perso terreni, poderi e persino la libertà a causa del loro essere diventati schiavi.

Così dice il testo del Levitico al capitolo 25: “Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. 9Al decimo giorno del settimo mese, farai echeggiare il suono del corno; nel giorno dell'espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra. 10Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia.”. Quell’anno giubilare – ogni cinquant’anni – era pensato perciò come un atto di liberazione e di affrancamento di tutti gli abitanti del paese: le terre rimanevano incolte ed ognuno rientrava in possesso del patrimonio smarrito e della libertà non più esercitata. I primitivi proprietari riottenevano i campi e le case da cui avevano dovuto separarsi, ed i debitori insolventi che erano stati ridotti in schiavitù venivano liberati. In questa lettura il “perdono” diventa un elemento inscindibile dalla giustizia per impedire che quest’ultima determini sempre più steccati tra chi ha potuto ottenere moltissimo e chi ha perso tutto.


Qual è la vera povertà?

Le continue visite di Papa Francesco rivolto a detenuti, a guardie carcerarie e alle Istituzioni politiche che reggono il mondo della pena, è perché non venga mai separata – nelle strutture detentive e nel nostro convivere sociale – la giustizia dal perdono e viceversa: il perdono dalla giustizia. 

E se fosse questo binomio – giustizia e perdono – la nostra vera povertà? Incapaci di concepire il perdono come categoria che umanizza e che completa la giustizia, siamo sempre più soli e divisi. Per alcuni solo “occhio per occhio e dente per dente” pareggia i conti. Altri non riescono proprio ad affidarsi a forme di bontà sena prima aver provato qualche forma di vendetta; altri ancora si ritrovano vittime e del rancore e in balia di faide e ritorsioni che si mangiano la poca serenità che avevano.

Siamo dogmaticamente convinti che “perdono” e “giustizia” appartengono a sfere diverse. O l’uno o l’altra, ci ripetiamo di continuo. E il mondo del denaro – che ci pervade e che plasma – ha ormai definitivamente ribadito (senza possibilità di dubbi) che le logiche economiche vanno estese ad ogni aspetto del con-vivere e che non si debba mai rinunciare ad un qualsiasi tipo di credito e che ogni debito vada scontato: fino alla fine.

Viviamo così nel mondo delle relazioni personali, nei contesti lavorativi e questa rigida separazione tra giustizia e perdono è norma anche nei confronti dei debiti degli Stati del Sud del mondo: nessun debito di un Paese del Sud del mondo può essere (mai!) condonato.

Le provocazioni del Giubileo indetto da Papa Francesco parlano un altro linguaggio e ricordano a tutti che saldare insieme, in un’unica moneta, giustizia e perdono è una solida premessa di equità, di contrasto alle diseguaglianze e di ritrovata libertà e liberazione per tutti. Nessuno escluso. E alcuni piccoli esempi confermano questa lettura.

Sul piano personale. Molta stanchezza e altrettanta smarrita libertà personale, non nascono, spesso, dalla eccessiva severità di chi non ha imparato ad accettare, ad accogliere e a perdonare alcune sue reali fragilità, errori e colpe del passato? Imparare a perdonare sé stessi non è cammino facile. Non si improvvisa. È un vero lavoro interiore. Lungo e complesso. Senza questa sapiente capacità di perdonare sé stessi, si diventa – lo sappiamo – rigidi, eccessivamente severi con gli altri e indisponibili a permettere percorsi di ripresa in chi vorrebbe uscire dai suoi errori.

Sul piano relazionale e famigliare. Quanti rancori, asti, odii e rivalità sono nascoste nelle radici delle nostre famiglie! Quante volte l’incapacità a dimenticare un torto ricevuto (e dunque a perdonare) ha creato steccati non solo inamovibili, ma ha anche oltrepassato il confine di una generazione scivolando nelle successive. Lo stesso dicasi per i conflitti interpersonali in cui siamo tutti immersi. Se non si prova ad uscire dalla rissosità (che sfinisce!) con la forza di una giustizia impregnata anche di perdono o almeno con la scelta di dimenticare il male subito, si resta intrappolati in pozzanghere cariche di veleno che ci rendono incapaci di sorridere e di stare bene. Per non parlare delle logiche economiche che, sul fondamento del denaro che ci guida e che ci domina, non danno nessuna cittadinanza al verbo “perdonare”. E non a caso è proprio il denaro che alimenta le tante, troppe diseguaglianze che evidenziano l’ingiustizia in cui siamo immersi.

Per non parlare delle guerre che negano tanto la giustizia quanto il perdono e che non si fermano fino a quando questo binomio è tenuto volutamente separato.


La propositività della nostra Costituzione

Torniamo alle provocazioni di Papa Francesco e alle sue reiterate attenzioni al mondo della detenzione: chi non è in grado di perdonare se stesso; chi è in conflitto permanente con i suoi parenti, amici e vicini; chi è consumato dalla vendetta, dall’odio, dall’invidia e dal rancore; chi è immerso in guerre inutili ed è costretto ad usare anche i detenuti per sperare di uccidere altri; …non potrà mai “guardare” il mondo del carcere intrecciando “giustizia” e “perdono”. Ma se diventiamo incapaci di perdonare e di condonare debiti altrui, la prima vittima di questa avarizia del cuore è la giustizia. Che assume la forma legale della vendetta senza mai smettere di chiedere “pene certe, severe e il più mortificanti possibili” per chi è in carcere. Nelle società che hanno disimparato la libertà del perdono, il carcere diventa il luogo in cui si possono scaricare le proprie frustrazioni, rabbie e fragilità.

Permettere a chi ha commesso un reato di riprendere il cammino della legalità e di ritrovare la sua libertà non è, però, intuizione che appartiene solo al mondo antico (Mesopotamia o libro del Levitico). E la concreta proposta culturale e politica che proviene dalla nostra Costituzione e che parla sempre di pena rieducativa. Una “pena” che può essere messa in pratica e aiutare il detenuto a ritrovare la strada della legalità solo se nel nostro contesto sociale – “oltre il muro” – si è sciolta la rabbia, il rancore e la voglia di vendetta che inevitabilmente tengono separati giustizia e perdono.

Nella Bolla di indizione del Giubileo Papa Francesco ha chiesto “qualche atto di clemenza per i nostri detenuti”. Che non sarà possibile attuare o concedere se nella nostra società non si fa pratica del linguaggio della clemenza, del perdono e della giustizia adulta che ha imparato a superare un torto con la forza del bene.

“E le vittime dei reati?”, chiede qualcuno. Nessuno le dimentichi e lo Stato spenda di più per loro e impari a declinare la categoria della sicurezza non solo con porte blindate, ma anche in accompagnamento per chi ha subito un reato. Ma nessuno dimentichi che anche molti detenuti sono vittime di un sistema sociale che li ha scaricati due volte: nella vita prima e nel carcere dopo.

L’augurio, di conseguenza, per questo 2025 è che giustizia e perdono diventino le due facce della stessa medaglia per renderci capaci di una esistenza nel segno della bontà, della libertà e dello sguardo meno severo: su di noi, su chi sta crescendo e nei confronti di chi sbagliato più di noi.

 

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