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L'Editoriale della domenica. C'era una volta l'America...

di Giancarlo Rapetti


Make America Great Again (in acronimo MAGA, come sta scritto sui cappellini dei suoi sostenitori), il programma politico di Donald Trump, consta di una premessa e di un intreccio di obiettivi e strategie. La premessa è semplice: la presa d’atto che l’America grande non è più. La potenza egemone che ha condizionato il mondo dal 1945 ha perso molto del suo potere. Un processo graduale, che ormai ha raggiunto l’evidenza. Non che il dominio americano sia sempre stato incontrastato. Già la guerra di Corea, nel confronto con la Cina appena diventata Repubblica Popolare sotto Mao, si era conclusa con un pareggio, evidenziato dalla linea armistiziale sul 38° parallelo tracciato alla fine delle ostilità, nel 1953, e che regge tuttora. Nel 1975 gli americani fuggivano da Saigon, dopo la lunga guerra del Vietnam. Ma il confronto principale, quello con l’Unione Sovietica, li aveva sempre visti prevalere. Avevano imposto la distensione e la coesistenza pacifica a Krusciov e logorato l’impero sovietico con la pressione economica e politica, portando il confronto ad un livello che l’URSS non era in grado di reggere.

Il 9 novembre 1989 sembrava la vittoria definitiva dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti d’America, tanto che si parlava di “fine della storia”. Quella sera il governo della DDR (Repubblica Democratica Tedesca, ovvero Germania Est) aveva convocato una conferenza stampa per annunciare la liberalizzazione dei passaggi tra le due parti di Berlino. Un giornalista (italiano) domandò: “quando entrano in vigore le nuove misure?” Il funzionario della DDR, preso alla sprovvista, rispose: “nel comunicato non c’è scritto, ma direi da subito”. La notizia rimbalzò con la velocità di un fulmine e in pochi minuti decine se non centinaia di migliaia di berlinesi dell’Est si riversarono ai varchi e li attraversarono sotto gli occhi attoniti dei poliziotti che li avevano presidiati con ferma determinazione dal 13 agosto 1961.

Gruppi di giovani cominciarono a picconare il muro e a distruggerlo fisicamente. Cadeva il muro di Berlino, cadeva la DDR, cadeva l’impero sovietico. Eppure, da quel giorno, in realtà, è cominciato il declino degli Stati Uniti d’America. Per due motivi: la finzione di un mondo bipolare, in cui ci si schierava o con l’Occidente o con l’Unione Sovietica, cessava. La liberazione da questo blocco determinava uno sviluppo tumultuoso che arricchiva tutto il mondo, ma faceva diminuire il peso relativo dell’Occidente. Un segnale emblematico di questo indebolimento degli Stati Uniti si ebbe l’11 settembre 2001: quel giorno, per la prima volta, un nemico esterno portava un attacco vincente nel territorio degli Stati Uniti d’America. Si potrebbe obiettare: già il 7 dicembre 1941 i giapponesi avevano attaccato Pearl Harbour, territorio americano. Territorio americano sì, ma nel mezzo del Pacifico. Le Torri Gemelle invece stavano a New York, il cuore dell’impero, la capitale dell’Occidente. Da allora è stato un susseguirsi di mezzi insuccessi, se non proprio di insuccessi conclamati, culminati nella fuga disordinata da Kabul nell’agosto 2021.

Non è poi così strano. Tutti gli imperi crescono, si espandono, poi declinano e infine crollano. Nel 1981 Paul E. Erdman, finanziere e scrittore americano, pubblicò un libro dal titolo esplicito: Gli ultimi giorni dell’America. Il racconto si conclude con un messaggio televisivo del Presidente degli Stati Uniti nel quale annuncia il ritiro dell’America da tutti gli scenari mondiali, compresi Europa, Mediterraneo, Medio Oriente. La fantasia è più veloce della realtà, ma quarant’anni dopo Donald Trump sta facendo la stessa cosa. Ci sono differenze, di stile e di sostanza. Il Presidente del romanzo legge il comunicato senza alzare lo sguardo dagli appunti, con l’aria dimessa dello sconfitto.

Gli annunci di The Donald sono a testa alta, spavaldi, ma in realtà sta annunciando che l’America, per diventare diversamente grande, deve rifugiarsi nella fortezza continentale, ritirandosi dal resto del mondo, a danno dei propri (ex) amici. Ecco perché parla di Canada e di Groenlandia; ecco perché abbandona l’Ucraina alla Russia, rinunciando a sconfiggere Putin e si accontenta di spartirne con lui le risorse pregiate, con un patto che non si sa quanto durerà. Ecco perché abbandona e maltratta l’Europa e vessa il presidente ucraino Zelensky. Presume, con ragione per quanto riguarda i tempi brevi, che i due oceani lo difenderanno dai missili nucleari della Corea del Nord e dell’Iran e che la Russia, in fin dei conti, è una potenza regionale in grado di minacciare l’Europa, ma non il continente americano. Presume infine che il confronto con la Cina sarà economico e commerciale e non militare, per scelta dei cinesi.

Non ci avevamo fatto caso, ma già nella sua precedente presidenza, il tycoon aveva fatto la stessa politica di ritirata da tutti i fronti. Nel 2018 aveva incontrato, dopo i soliti alti proclami, il capo nord coreano Kim Jong-un e raggiunto una dichiarazione congiunta, rimasta lettera morta: la Corea del Nord non ha denuclearizzato e ha sviluppato missili balistici a corto, medio e lungo raggio, per trasportare la bomba atomica che possiede. Sempre nel 2018 gli USA si sono ritirati dall’accordo JCPOA (Piano d’Azione congiunto globale) stipulato nel 2015 con l’Iran da Obama, congiuntamente ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, più Germania e Unione Europea.

Sulla qualità di quell’accordo le opinioni sono discordanti: chi lo critica sostiene che l’Iran ha ottenuto la completa rimozione delle sanzioni in cambio di un semplice differimento del proprio programma nucleare, senza che ci fossero efficaci strumenti di controllo internazionale sul rispetto delle clausole da parte iraniana. Resta il fatto che, dopo l’uscita dal JCPOA, gli Stati Uniti di Trump non hanno fatto nulla per bloccare lo sviluppo del progetto nucleare iraniano, che anzi ha avuto una accelerazione decisiva. La stessa disordinata fuga da Kabul, che Trump addebita al suo successore e predecessore Biden, ha avuto come premessa gli accordi di Doha, con i quali The Donald si arrendeva ai Talebani e prometteva di riconsegnare loro l’Afghanistan. Se non sono sconfitte, sono ritirate strategiche, che certamente portano consenso in patria. Il fatto che gli USA non combattano più nel resto del mondo, e non ritornino più bare avvolte nella bandiera, farà certamente piacere a molti americani.

Resta un mistero difficile da decifrare che cosa voglia fare Trump nel Medio Oriente, o meglio nei confronti dello Stato di Israele. La domanda è decisiva, perché lo stato ebraico nel mondo è isolato e senza il sostegno americano non potrebbe sopravvivere. Le sue dichiarazioni, e alcuni gesti simbolici, sono di ampio sostegno a Israele. Per citare un fatto marginale, ma significativo, ha invitato alla CPAC (la convention dei conservatori), a Washington, Noa Argamani (il video del cui rapimento è diventato uno delle icone del 7 ottobre 2023) e ha chiamato l’applauso in suo onore.

Ma quanto valgono le dichiarazioni di Trump?

Nei fatti, ha imposto a Netanyahu l’accordo proposto da Biden a maggio 2024 e mai accettato perché sancisce sul campo la sconfitta di Israele, che concede la tregua, o il cessate il fuoco definitivo, in cambio di nulla: gli ostaggi sono rilasciati (con il contagocce) in cambio della scarcerazione di migliaia di detenuti “palestinesi”. L’accordo in Israele non è considerato buono da nessuno, ma chi lo approva, come il leader centrista Benny Gantz, lo fa perché ritiene un “dovere morale” prioritario liberare gli ostaggi, senza subordinare questo risultato alla distruzione di Hamas, obiettivo che resta lontano nel tempo.  

Poi Trump ha proposto una soluzione per Gaza: dare una casa agli abitanti di Gaza in Egitto e in Giordania, o forse anche in Arabia Saudita, e procedere alla ricostruzione della Striscia, prevista in quindici anni.  L’esperienza delle zone terremotate in molte parti del mondo dicono che il percorso e i tempi sono ragionevoli e realistici. Con il procedere della ricostruzione, si avvia anche il rientro della popolazione: gli operai, i cuochi, i tecnici impegnati nella ricostruzione, le loro famiglie, le scuole, gli insegnanti, i ristoratori, i baristi, i ballerini, gli attori, i cineasti. Con gli edifici cresce anche una nuova società civile.

Lasciamo stare Netanyahu, cattivo e amico di Trump, ma l’interpretazione prima descritta è anche del già citato Gantz, che ha solo puntualizzato che lo spostamento di popolazione è volontario. E’ naturale, ma non cambia il progetto. Se Gaza è distrutta al sessanta per cento, e densamente abitata, chi potrebbe rifiutare una casa nuova, in un contesto di servizi, invece di tende e macerie senza servizi? Solo gli irriducibili combattenti antiebraici. Quindi la soluzione va imposta a Hamas. Chi può farlo? Solo gli americani in collaborazione con i principali paesi arabi, contro i quali Hamas non combatterebbe. Ma Trump si è subito smentito. Tralasciamo il video Trump Gaza, con tanto di statue dorate e ballerine barbute: quello che circola in Internet non si sa mai se è vero o falso; e se è vero, è una autoparodia certamente non con effetto promozionale. E’ rilevante invece la dichiarazione successiva di Trump: “noi ricostruiremo quando Israele ci consegnerà la Striscia”. Con il che ritorniamo alla casella di partenza del gioco dell’oca. Disimpegno in vista anche da questo teatro?

Le considerazioni sopra esposte sono basate su quanto si trova sui giornali mainstream, in televisione, sui social media. Può essere che le deep news, a conoscenza di poche persone, smentiscano la ricostruzione. Ma credo che possa applicarsi la scommessa di Pascal. Se quanto esposto si avvicina anche solo un po’ alla realtà, per noi europei la via d’uscita è una sola: l’Europa deve decidersi ad esistere. Se lo scenario è corretto, l’Unione Europea vera, con chi ci sta, è utile e necessaria. Se lo scenario è sbagliato, l’Unione Europea è solo utile. Comunque ne vale la pena.

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