L’assuefazione alle notizie di guerra
Aggiornamento: 13 apr 2023
di Emanuele Davide Ruffino
Neanche più il possibile scoppio di conflitti più o meno circoscritti riesce a sconvolgere l’opinione pubblica: un driver di questa assuefazione alle notizie di guerra lo offrono gli indici di borsa. Dopo l’abbattimento delle Torri gemelle, Wall Street era materialmente impraticabile e quando riaprì si registrò un tonfo pari a quello avvenuto nelle altre borse internazionali. Progressivamente gli attentati che seguirono (Londra, Madrid, Parigi, Nizza) presentarono un impatto sempre più inconsistente fino ad oggi che la crisi iraniana non ha impedito di raggiungere nuovi record. L’opinione pubblica si è forse assuefatta alle notizie di una guerra imminente che poi non scoppia mai, se non in teatri circoscritti, volti a testare non solo le armi, ma anche la reazione dei mercati delle materie prime. ndo scoppiò la guerra del Golfo, in Italia si scatenò la corsa all’accaparramento di zucchero, dettato dal ricordo atavico di carenza di alcuni generi alimentari. Si fece notare che nei deserti arabici non è che vi fossero tante piantagioni di barbabietole da zucchero, ma ciò non fermò gli acquisti, con i gli ipermercati del tempo presi letteralmente d’assalto. Il problema può essere studiato anche come insieme delle interconnessioni che si vengono a creare tra avvenimenti reali, anche se creati ad arte, percezione degli eventi, mediata dai mass media e dai social network, capacità di gestire le reazioni da parte delle collettività. Cosa è realmente successo diventa così quasi un eccipiente: non può non esserci, ma diventa sempre meno importante per capire l’evoluzione degli avvenimenti.
La capacità di analisi degli avvenimenti si trasforma, come un quadro di Picasso, in più possibilità di visioni e di assemblamento delle medesime, al punto che diventa difficoltoso ricostruire una visione univoca di quanto succede. La nostra è una società che, a cominciare dagli eventi sportivi, non accetta più la versione ufficiale dei fatti, ma vuole ricostruirla all’infinito ed in questo contesto si inseriscono fake news, eventi indotti, e la possibilità di chi detiene e gestisce le informazioni di sfalsare la realtà, enfatizzando alcuni aspetti e trascurandone altri.
Le previsioni sull’andamento dell’economia, sempre più influenzata dagli “indicatori di fiducia”, non fanno eccezione, anzi è un terreno dove l’interazione di più forze crea un mix di reazioni imprevedibili.
Oggi le paure di una possibile guerra alle porte dell’Europa non hanno prodotto reazioni: segno di maturità sociale oppure il confine tra “reale” e “percepito” si sta confondendo in un limbo indecifrabile.
Non c’è più istituzione o agenzia così autorevole di convincere chiunque sulla veridicità di quanto afferma (e ciò è un bene, altrimenti vivremmo in una dittatura culturale), ma l’affermarsi continuamente di versioni alternative
(qualcuna creata solo per ragioni di visibilità) rischia di offuscare qualsiasi verità. Occorrerebbe accrescere la capacità di analisi e di giudizio di ogni singolo individuo, ma non sembra che la nostra società sia molto propensa a questo approccio. La crisi iraniana conferma la difficoltà a distinguere i fatti dai commenti:
– il dispiacere del governo iraniano o la soddisfazione di chi esulta per la
morte di 176 infedeli;
– il dubbio espresso dai canadesi su come l’aumento della tensione può provocare incidenti gravissimi o questi sono la conseguenza di una mancanza di politica internazionale;
– la liceità di attaccare le ambasciate o l’individuazione di chi deve gestire
la reazione;
– quante dichiarazioni vengono rilasciate solo per guadagnare consenso o visibilità.
Peccato che i 176 non possono partecipare al dibattito.
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