Ivo Saglietti, una "retrospettiva" viva e presente
Aggiornamento: 13 dic 2023
di Tiziana Bonomo
Si è inaugurata ieri, 12 dicembre, al Museo del Risorgimento di Torino la Mostra fotografica "Ivo Saglietti, lo sguardo nomade" che offre fino al 28 gennaio prossimo l'opportunità di conoscere il fotoreporter di valore internazionale scomparso di recente, il 2 dicembre scorso. Un centinaio di persone ha partecipato al simbolico taglio del nastro. Insieme con la presidente del Museo Luisa Papotti, che ha fatto gli onori di casa, e preceduti da Michele Ruggiero, organizzatore dell'iniziativa per la Porta di Vetro e dalla curatrice Tiziana Bonomo, sono intervenuti il presidente del Consiglio regionale del Piemonte Stefano Allasia, l'assessora al Lavoro del Comune di Torino Gianna Pentenero e Antonio Carloni, vicedirettore di Gallerie d’Italia Torino.
La realizzazione della mostra è stata una corsa contro il tempo, inarrestabile e impietoso, nella speranza, purtroppo vana, di ritrovarsi a contatto dell'artista con cui commentare le 53 immagini che, in un allestimento sobrio quanto penetrante con i suoi giochi in bianco e nero, sono appese sui muri della manica del Salone d'onore del Museo del Risorgimento.
Così, quei 53 scatti quasi incastonati con precisione millimetrica in deliziosi passepartout, scatti che scandiscono più di 40 anni di "nomadismo" professionale, sono diventati inesorabilmente una retrospettiva, però viva e presente, attraverso la quale Ivo Saglietti continua a portarci in giro per il mondo ad osservare le tante pieghe dell'umanità e a domandarsi perché il più delle volte essa sia schiacciata. Di Tiziana Bonomo, che con grande passione ha curato la mostra di un amico, prima ancora di un fotografo, il ritratto di Ivo Saglietti.
La Porta di Vetro
Ho conosciuto Ivo Saglietti a metà degli anni ’90 ad un corso di storia della fotografia. Ivo portò il suo lavoro fatto ad Haiti. Vedevo scorrere sullo schermo le “diapositive” in bianco e nero, la raccolta della canna da zucchero, i giovani in mezzo all’immondizia alla ricerca di scarti di cibo, i bambini pieni di vita provati dalla stanchezza, le donne nere nere con in mano madonne bianche bianche; e poi la voce di Ivo, profonda, da fumatore, che con poche misurate parole tentava di far capire di cosa era stato testimone: miseria, povertà, sfruttamento, mancanza di diritti. La visione composta nelle sue fotografie con quella luce che accarezza tutte le sfumature dei grigi per bloccare nel bianco e nel nero la cornice del racconto non mi ha più abbandonato.
Ho insistito per rivederlo, conoscere i suoi lavori. Così è stato. Il fumo della sigaretta lo ha sempre accompagnato nella strada mai abbandonata, mai, della ricerca dell’uomo – uomo come essere umano – della comprensione dell’esistenza, della vita.
Oggi – forse per la perdita di un amico, di un reporter – colgo il significato vero del privilegio inteso nel suo significato più stretto: avere una posizione favorevole rispetto a quelli che non l’hanno conosciuto. La posizione che mi ha consentito di guardare con lui i suoi innumerevoli lavori, di aver rivisto più volte molte delle sue fotografie, di aver ascoltato le sue storie di testimone della nostra Storia, di aver conosciuto registi come Angelopoulos e scrittori come Gary, di aver condiviso saporiti pranzi ricordando il profumo del Mediterraneo.
Abbiamo sempre condiviso che la fotografia “porta lontano”.
La forza della fotografia di Saglietti è proprio nella sua visione poetica, nello sguardo che coglie un insieme che ha sempre senso, che non ha sbavature e imprecisioni. Assale improvvisa la voglia di fermarsi lì a farsi incantare da quell’immagine in bianco e nero così comunicativa e precisa nella sua compostezza formale.
È proprio quella scena che sa raccontare e lasciare sempre uno spazio affinché le nostre emozioni affiorino senza filtri lasciando spazio alla commozione che ci avvicina agli altri.
La luce si adagia nel punto giusto di una postura, di un particolare, di un frammento che compone l’immagine a darne rilievo fino quasi ad immaginare che la scena riesca ad animarsi.
Ecco cosa riescono a fare le foto di Ivo Saglietti a far percepire lo stato d’animo dei protagonisti, l’intensità della situazione. Un poeta della fotografia, un poeta dell’anima che lascia emergere una malinconia, una velata tristezza necessarie a farci avvicinare all’impotenza umana. Nelle fotografie di Ivo sembra non esserci possibilità di fuga da quella situazione: è così oppure è così che è accaduto e nulla, in quel momento, si può fare. Nulla se non quello di provare compassione, di abbandonarsi alla realtà dei fatti. La sua fotografia arriva direttamente alla mente e al cuore non passa dallo stomaco, non fa sobbalzare per l’orrore e nemmeno urlare dalla disperazione, non ricerca lo scandalo, non ricerca la provocazione, non sente il bisogno di urlare ma semplicemente di sussurrare.
Il significato emerge con grazia, arriva da quello sguardo che cerca, cerca, cerca instancabilmente il senso, il perché delle cose. Perché si deve arrivare a commemorare i morti dei massacri in Slovenia, perché si deve sopportare l’attesa sotto la pioggia, fare la coda, patire la fame per sfuggire alla guerra, perché ci si deve vergognare entrando in un campo di concentramento, perché si deve ammirare la bellezza delle donne colpite da malaria, perché l’estraniamento dei carcerati riesce a provocare un senso di disagio imprevisto? Dal suo primo lavoro in Sud America a quello in Siria, dal vicino Oriente a Mar Musa fino ad Idomeni, tutte le immagini di Saglietti cercano di lasciare una traccia per approfondire, per interrogarci sui meccanismi che regolano il mondo. È un vero intellettuale, colto che va a fondo di quello che accade all’uomo civile che lavora e cerca di vivere al meglio che non chiede guerre, né carestie, né soprusi ma che fatalmente li deve subire ed accettare.
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