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Stefano Marengo

Israele e dramma palestinese: informazione imbarazzante

Aggiornamento: 22 ott

di Stefano Marengo


Tra i vari significati del termine “imbarazzo”, il Grande dizionario della lingua italiana curato dall’Accademia della Crusca elenca i seguenti: “Accozzaglia; groviglio”; “Sofferenza di stomaco o di fegato”; “Stato d’animo di confusione, di disagio, di perplessità, provocato da sorpresa o timore o soggezione o vergogna”; “Circostanza, evento spiacevole; preoccupa­zione, inquietudine”. Prese tutti insieme, queste definizioni descrivono abbastanza bene come ci si sente di fronte al racconto imbastito dai media e dalla politica italiana sulle vicende mediorientali.

Prendiamo le notizie di ieri sera relative alla visita di Antonio Tajani in Israele-Palestina. “Con la morte di Sinwar, ha dichiarato il nostro Ministro degli Esteri, Israele ha sconfitto l’ala militare di Hamas. Ora è interesse di tutti ragionare sul cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi”. Per quanto riguarda il Libano, invece, Tajani ha assicurato che l’esercito israeliano non adotterà ostilità verso il contingente Unifil, a cui partecipano anche i militari italiani, e ha affermato che l’Italia, che si oppone all’escalation, conferma il pieno sostegno al diritto di Tel Aviv alla difesa.

Tutto bene, insomma? A leggere queste dichiarazioni sembrerebbe ormai tracciata la strada verso la distensione e la risoluzione del conflitto. Basta però grattare appena sotto la notizia per rendersi conto che le cose non stanno così, o meglio sono proprio l’opposto di quanto il comune cittadino potrebbe dedurre dalle parole di Tajani. Netanyahu, che ormai nemmeno parla più della questione dei prigionieri del 7 ottobre, ha già ribadito che l’operazione militare a Gaza non è affatto conclusa e che, di conseguenza, è fuori discussione ogni prospettiva di cessate il fuoco. Per la cronaca, nel corso dell’ultima settimana l’esercito israeliano ha completamente circondato l’area nord della Striscia di Gaza, in particolare il campo profughi di Jabalia, dove circa 300mila palestinesi da tempo non ricevono viveri e sono ormai ridotti alla totale indigenza.

Euro-Med Human Rights Monitor riferisce che, oltre ai bombardamenti a tappeto, un numero imprecisabile di persone è stato vittima di esecuzioni sommarie, mentre da giorni circolano immagini di lunghe colonne di civili palestinesi che, con le mani legate, vengono violentemente allontanati dall’area, in quello che ha tutte le caratteristiche di un caso da manuale di pulizia etnica. Ma di tutto ciò, nelle affermazioni di Tajani, non si trova riscontro ufficiale, né traccia ufficiosa...

Sul fronte libanese la situazione appare, se possibile, ancora più surreale, quindi ulteriormente imbarazzante. Nelle scorse ore il governo israeliano ha consegnato agli USA un documento per una soluzione diplomatica del conflitto. Si tratta però di una proposta che contiene in sé la sua stessa smentita. Tel Aviv, infatti, vorrebbe che le Idf fossero “forza attiva” per evitare il riarmo e la ricostruzione dell’infrastruttura militare di Hezbollah e che l’aeronautica militare israeliana possa operare nello spazio aereo libanese. In altre parole, Israele sta dicendo che acconsentirà a una tregua soltanto se alle sue forze armate sarà consentito di occupare militarmente il Libano (o almeno, ne deduciamo, la sua parte meridionale). È evidente che, più che una proposta di cessate il fuoco, si tratta di un esercizio di neolingua orwelliana volto a (ri)denominare come pace lo stato di guerra. Un funzionario statunitense ha pudicamente affermato che è molto improbabile che il Libano e la comunità internazionale accettino queste condizioni.

Tajani, tuttavia, forse troppo preso dalle rassicurazioni per la sorte del contingente Unifil, non sembra aver colto l’impasse. Quel che è certo è che anche in questo caso il responsabile della Farnesina, proprio mentre su Beirut piovevano nuove bombe israeliane, non ha sentito la necessità di spendere una parola sulle migliaia di libanesi uccisi e sul milione di sfollati dal sud del paese.

Non sfuggiranno i tratti profondamente tragicomici della vicenda, al pari - per i comuni carati di tragicomicità - di quella dei migranti trasferiti dal centro albanese a Bari. Di fronte a un dramma umano e politico di dimensioni enormi sembra insinuarsi una linea macchiettistica, caricaturale, ed è proprio questo che crea imbarazzo. Non bisogna credere, tuttavia, che le cose avvengano per caso. Questo approccio politico e mediatico al Medio Oriente, in particolare per quanto concerne l’informazione rivolta al grande pubblico, è al contempo studiatamente superficiale e intrinsecamente manipolatorio. Quello di Tajani non è in fondo che l’ultimo di una lunga serie di esempi che illustrano una strategia comunicativa ormai divenuta sistematica quando si ha a che fare con lo stato ebraico.

Il primo passo di tale strategia, spesso sottinteso, consiste nell’assumere Israele come un partner per definizione ragionevole e affidabile, ossia, in sostanza, nell’aderire alla narrazione che presenta di sé. In secondo luogo, e di conseguenza, a essere sottolineate saranno sempre le “rassicurazioni” che i leader israeliani forniscono ai loro alleati; in questo modo Tel Aviv viene costantemente fatto apparire come protesa alla ricerca della pace, vittima di aggressioni a cui, suo malgrado, è costretta a rispondere con la violenza, e comunque mai oltre il limite del tollerabile. Il terzo passo, infine, è quello dell’omissione, o per lo meno della messa in secondo piano di tutto ciò che contraddice tale narrazione. È così, ad esempio, che non si è data quasi nessuna copertura alla decisione della Corte internazionale di giustizia di sottoporre Israele ad indagine per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità; è così che vengono tendenzialmente ignorati tutti i resoconti delle principali organizzazioni umanitarie internazionali che descrivono tali crimini; ed è così, infine, che immagini e testimonianze della devastazione di Gaza e del Libano non raggiungono mai la prima pagina.

Insomma, la strategia politica e mediatica scelta dalle classi dirigenti italiane è molto meno passiva di quanto a prima vista si potrebbe credere. L’approccio adottato non consiste, banalmente, nel prendere per buona la “versione di Israele”, ma nel costruire una comunicazione che, a monte, colloca il governo Netanyahu dalla parte della ragione e, così facendo, fornisce all'esecutivo israeliano il nulla osta preventivo per qualsiasi azione intenda intraprendere.

È a questo punto che l’imbarazzo scompare e lascia posto alla vergogna. Perché è nella storia stessa dell'Italia, delle sue capacità di mediazioni avute nel passato, nel suo equilibrio e attenzione che i partiti della Prima Repubblica, dalla Dc al Psi e al Pci, per citare quelli di massa, sapevano assumere una posizione chiara e non codina sulla questione palestinese e nel rapporto con Israele. Purtroppo, ancora una volta, la vergogna è direttamente proporzionale al crollo della nostra memoria.

 

 

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