Ipocrisie a parte, senza politica Sanremo non è Festival
Aggiornamento: 5 giorni fa
di Giancarlo Rapetti
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Il Festival di Sanremo 2025 voleva essere dichiaratamente esente dalla politica. Niente satira politica, niente monologhi, niente ospiti scomodi, solo buonismo e canzonette. E’ andata davvero così? No, e non poteva che essere altrimenti. La kermesse canora di febbraio è politica per sua natura, se non altro perché si rivolge ad un pubblico vasto, praticamente unica sopravvissuta tra le trasmissioni della TV generalista. Milioni di persone seguono il Festival, tra cui molti giovani, i veri consumatori bulimici di musica leggera. Sanremo, d’altra parte, è sempre stata una cassa di risonanza delle novità politiche. In tempi recenti, per non riandare alla performance di Beppe Grillo nel 1989, rimane eclatante il caso del Festival 2011, condotto da Gianni Morandi, con Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu ai massimi storici della loro bravura, vincitore Roberto Vecchioni: si respirava l’inizio del ramo discendente della parabola di Silvio Berlusconi, all'epoca a Palazzo Chigi, preso di mira da Roberto Benigni che entrò sul palco dell’Ariston a cavallo, dopo aver pronunciato la celebre battuta «avevo dei dubbi se entrare a cavallo perché in questo momento ai cavalieri non gli va tanto bene...». Di lì a qualche mese, Berlusconi si sarebbe dimesso da Presidente del Consiglio, travolto dagli scandali e dallo spread.
L’edizione 2025 non ha fatto eccezione: è stata la plastica rappresentazione di una Italia bloccata, incapace di affrontare i problemi, che si rifugia nei buoni sentimenti. Salari e sanità, scuola e famiglia, industria e lavoro, difesa e sicurezza. Non ne parliamo, e così i problemi non esistono. Però parliamo di malattia e di disabilità, di società inclusiva: tutte cose altamente meritorie, ma parziali, per di più accompagnate da una estremizzazione del politically correct e dalla (timida) promozione del gender fluid. Insomma, esattamente quello che sta accadendo in politica: da un lato si anestetizza la maggioranza della popolazione nascondendo i problemi sotto una coltre di torpore o diversivi, dall’altro si titillano le minoranze enfatizzando le bolle di loro interesse.
Lo stesso vale per la politica estera, laddove con il duetto canoro, ad inizio della prima serata, tra Noa e Mira Awad, si è alluso ad un incontro di “pace” tra una cantante israeliana e una “palestinese”, insistendo sul fatto che i popoli non sono “cattivi” come i loro governi. Anche in questo caso, le ambigue sfumature della politica estera italiana hanno trovato perfetto riscontro nel modo in cui la performance delle due artiste è stata presentata. La realtà è un po’ diversa: Noa è una ebrea di origine yemenita; Mira Awad è un’araba israeliana. Entrambe cittadine dello stesso stato democratico e multietnico, sono tra loro in pace da sempre. Noa è pacifista, Mira è di estrema sinistra: succede anche in Italia.
Il fatto rilevante è un altro: non c’è artista israeliano famoso nel mondo che non sia contro il suo governo. La spiegazione è semplice. Se non fa così, non è accettato dai canoni prevalenti nell’industria culturale mondiale. Non vale solo per gli israeliani, in realtà: Scarlet Johansson, la stella sexy di Match Point di Woody Allen, ha dovuto smettere la pubblicità del prodotto israeliano Soda Stream per non essere emarginata dal circus hollywoodiano. E il film Cleopatra con protagonista la Wonderwoman Gal Gadot, messo in lavorazione nel 2020, ancora non è arrivato alle sale: ha suscitato molte polemiche il fatto che a interpretare Cleopatra fosse chiamata un’attrice israeliana e non egiziana.
Una critica, tra l’altro, storicamente infondata: gli egiziani di oggi non sono quelli dei tempi di Cleopatra, visto che gli arabi sono arrivati ad Alessandria d’Egitto nel 638 d.C., cioè sei secoli dopo. Cleopatra, discendente di Tolomeo, generale di Alessandro Magno, era greca-macedone. Comunque, per ritornare al filo del discorso, non ci sono artisti israeliani di talento e di successo internazionale che difendano il proprio paese e il proprio governo. Che lo facciano per opportunismo o per convinzione (nel caso di Noa, il suo curriculum vitae depone a favore della seconda ipotesi) non sposta il cuore del problema: la discriminazione e il doppio standard che lo stato ebraico subisce nell’ambito della cultura e dello spettacolo, anche in Italia.
Insomma, il Festival programmaticamente meno politico si è rivelato interprete della politica di oggi e della sua crisi di identità e di idee. La breve apparizione di un Roberto Benigni sempre bravo, e pronto a parole ferme di apprezzamento per il Presidente Mattarella, ma nell’insieme in punta di piedi, non ha scalfito la connotazione di fondo.
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