"Io sono ancora qui", quaranta anni di democrazia in Brasile
Aggiornamento: 1 giorno fa
di Jacopo Bottacchi
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Arrivai da molto lontano, e il viaggio fu così lungo. E nella mia camminata ostacoli sulla strada. Ma, alla fine, sono qui. Mi vergogno delle cose che ho visto, ma non rimarrò in silenzio, nel conforto, come tanti là fuori. (Erasmo Carlos, É Preciso Dar Um Jeito, Meu Amigo, 1971).
Rio de Janeiro, gennaio 1971. La dittatura militare già da qualche anno sta mostrando il suo volto peggiore, quello degli “anni di piombo”, che in Brasile ebbero ufficialmente inizio con l’approvazione dell’Ato Institucional n°5 (AI-5) nel 1968, che aprì il cammino alla fase più dura della repressione del regime verso gli oppositori, istituzionalizzando la tortura, l’omicidio e le sparizioni come strumento di azione dello Stato.
Rubens Paiva conduce una vita apparentemente tranquilla, in una casa che si affaccia sulla spiaggia, con la moglie Eunice e i loro cinque figli. La presenza del Regime sullo sfondo, tuttavia, è costante e inquietante, e ben presto sconvolgerà le loro vite. Queste sono le premesse di “Io sono ancora qui” (Ainda estou aqui), l’ultimo film di Walter Salles, già conosciuto dagli appassionati di cinema italiani per “Central do Brasil” (1998) e soprattutto per “I diari della motocicletta” (2004). Il film, candidato a tre premi Oscar (miglior film, miglior film internazionale e miglior attrice protagonista, con una meravigliosa Fernanda Torres) è la trasposizione cinematografica dell’omonimo libro autobiografico di Marcelo Rubens Paiva, figlio di Rubens ed Eunice, edito in Brasile nel 2015 e pubblicato nel nostro paese proprio nelle scorse settimane.
Chi era Rubens Paiva?
Un avviso ai lettori: non vogliamo anticipare la trama del film, attualmente in sala e che consigliamo caldamente di vedere. Chi non conoscesse la storia di Paiva e volesse arrivare in sala completamente “digiuno”, è invitato a passare direttamente alla sezione finale dell’articolo, nella quale torneremo a parlare solo della pellicola, senza anticipazioni.
Nel nostro viaggio nei 40 anni dal ritorno della democrazia in Brasile, tuttavia, non possiamo non approfittare di questo film, che pone il paese al centro del mondo cinematografico, per riaprire un’importante pagina di storia, concentrandoci soprattutto su quello che “Io sono ancora qui” non racconta, a partire dalla biografia di Rubens Paiva.
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Deputato Federale tra il 1962 e il 1964, eletto tra le fila del Partido Trabalhista Brasileiro, a Paiva toccò lo stesso destino degli altri politici che si erano opporti al Golpe Militar del 1964: privato dei diritti politici, decise prudentemente di auto-esiliarsi, trasferendosi prima in Iugoslavia e poi in Francia.Dopo nove mesi all’estero, durante un viaggio che avrebbe previsto come destinazione finale Buenos Aires, decise tuttavia di approfittare di uno scalo a Rio de Janeiro per rientrare in patria, dove sarebbe rimasto svolgendo la sua prima professione, quella di ingegnere civile. Paiva avrebbe comunque mantenuto i contatti con molti degli esuli, in particolare con quelli rifugiati in Cile, ancora democratico e per questo terra di elezione di molti perseguitati politici; nel 1969 Paiva si sarebbe anche recato in Cile per aiutare Helena Bocayuva Cunha, figlia di Luiz Fernando, ex deputato e amico di Rubens, scappata all’estero dopo essere stata coinvolta in una delle più celebri azioni di guerriglia dell’epoca, il sequestro dell’ambasciatore statunitense in Brasile Charles Burke Elbrick.
E saranno proprio le lettere inviata da Helena a Rubens, intercettate dai militari durante l’arresto di Cecília Viveiros de Castro e Marilene de Lima, che le stavano portando in Brasile, a condannare Paiva.
L’ex deputato venne prelevato dalla sua casa dai militari, sicuri che conoscesse l’identità di “Adriano”, al secolo Carlos Alberto Vieira Muniz, il principale contatto di Carlos Lamarca, leader rivoluzionario della Vanguarda Popular Rivolucionaria prima e della VAR-Palmares poi, tra i principali gruppi guerriglieri nazionali.
Rifiutatosi di collaborare, Paiva fu torturato dai militari dei DOI-CODI, l’organo dell’esercito responsabile dell’intelligence, della repressione e delle torture per conto del Regime.Morì poche ore dopo, a causa di un’emorragia interna, e il suo corpo non fu mai ritrovato.
Nei giorni successivi alla sua morte, la Polizia fornì naturalmente una versione falsa degli eventi, secondo cui Paiva era stato sequestrato da “sconosciuti” due giorni dopo il suo arresto. Consapevole dell’omicidio del marito, Eunice Facciolla, il cui cognome tradisce le chiare origini italiane della famiglia, lotterà per anni per svelare la verità, ricorrendo ad ogni Tribunale possibile, naturalmente senza successo.
La storia di Paiva è solo una delle 434 storie delle vittime del Regime Militare, e sono una tra quelle delle 20.000 vittime di tortura accertate nel paese. E tuttavia, in quanto ex Deputato Federale e grazie all’ampia rete di contatti politici di cui godeva, fin da subito fu una delle vicende su cui maggiormente si concentrò l’attenzione anche della comunità internazionale. Per Paiva e per molte delle vittime, tuttavia, non sarebbe stata fatta giustizia, soprattutto a causa dell’amnistia approvata nel 1979, che perdonava “tutti i reati politici commessi tra il 1961 e il 1979”. Proposta dal Regime, escludendo esplicitamente “i terroristi già condannati”, scatenò immediatamente ampie proteste e richieste di un’amnistia “ampia, generale e non ristretta” da parte della società civile.
![Humberto de Alencar Castelo Branco (Fortaleza, 20 settembre 1897 – Messejana, 18 luglio 1967) è stato un generale e politico brasiliano. A seguito di un colpo di Stato e all'instaurazione di un regime militare, Castelo Branco ricoprì la carica di presidente del Brasile e governò con poteri dittatoriali dal 15 aprile 1964 al 15 marzo 1967.](https://static.wixstatic.com/media/a25c5b_293b65c042d94557a5cd0ebf87a9df7a~mv2.png/v1/fill/w_800,h_1195,al_c,q_90,enc_auto/a25c5b_293b65c042d94557a5cd0ebf87a9df7a~mv2.png)
Il testo fu però approvato nella formulazione originale del governo, tanto che i condannati per “terrorismo” furono liberati solo successivamente, a seguito dell’indulto presidenziale o della revisione dei loro processo; uno dei risultati più drammatici dell’amnistia del 1979 è legato alla sua interpretazione estensiva, sul quale molto si è dibattuto e si continua a dibattere in Brasile: a causa della sua voluta “formulazione oscura”, l’amnistia infatti fu di fatto estesa anche ai torturatori di Stato, che invece non avrebbero dovuto beneficiarne, dato che avrebbero dovuto essere “perdonati” solo i crimini ufficialmente riconosciuti, tra i quali ovviamente all’epoca non rientravano le torture.
Molti anni dopo, nel 2009, sarà il Supremo Tribunal Federal a confermare questa interpretazione, nonostante le polemiche di molti giuristi, affermando che l’amnistia beneficiava anche i torturatori e gli agenti della dittatura, arrivando in un provvedimento successivo ad affermare che la decisione era stata presa per non “ferire i patti che avevano condotto il Brasile alla democrazia”. La battaglia giuridica è in realtà ancora in corso, anche se al momento non sembrano essere all’orizzonte cambiamenti nella giurisprudenza.
Tornando a Paiva, la sua morte così come quella degli altri desaparecidos sarebbe stata riconosciuta ufficialmente dallo Stato solo nel 1995, quando il Presidente Fernando Henrique Cardoso e il Congresso Brasiliano riconobbero come decedute le persone scomparse a seguito della loro partecipazione politica (o delle accuse di partecipazione politica) tra il 1961 e il 1979.
Per il riconoscimento della verità storica da parte delle autorità statali ci sarebbe voluto ancora di più. Sarà la Comissão Nacional da Verdade (CNV), convocata nel 2011 e i cui lavori si sono conclusi nel 2014, a consegnare alla Presidentessa Dilma Rousseff, a sua volta vittima di tortura, un documento in cui dichiarava esplicitamente che “la pratica delle detenzioni illegali e arbitrarie, la tortura, la violenza sessuale, le esecuzioni, le sparizioni forzate e l’occultamento di cadavere furono frutto di una politica statale, rivolta contro la popolazione civile, che si caratterizza come crimine contro l’umanità”.
Un prezioso contributo per la memoria collettiva
“Io sono ancora qui” è stato, fin dalla prima proiezione, un grande caso nazionale in Brasile, alimentando un dibattito mai sopito sulle eredità della Dittatura. Mentre scriviamo, la pellicola è stata vista da più di 4 milioni di brasiliani, il maggior successo cinematografico nel post-pandemia, e si colloca al quinto posto per incassi di tutti i tempi. Ancora in sala dopo ben 13 settimane, il film è uscito in Italia lo scorso 30 gennaio e sta riscuotendo grande successo anche all’estero; i dati dei giorni scorsi confermano, ad esempio, che ha superato il milione di dollari di incassi nella prima settimana negli Stati Uniti.
“Io sono ancora qui” si distingue da altri film che raccontano il Regime Militare perché il protagonista della vicenda, Paiva, appare solo nella prima parte del racconto, che si concentra invece soprattutto su Eunice Facciolla, sua moglie. Come scrive Paolo Mereghetti, si tratta di “una storia di coraggio e di speranza che l’interpretazione di Fernanda Torres (già premiata con il Golden Globe e in attesa degli Oscar) sa rendere indimenticabile.”Da segnalare poi una piccola curiosità che impreziosisce ulteriormente il film: nelle scene finali, ambientate nel 2014, il ruolo di Eunice non viene interpretato da Fernanda Torres ma da sua madre, Fernanda Montenegro, che nel 1998 fu la prima latinoamericana ad essere candidata ai Premi Oscar come miglior attrice per Central do Brasil, dello stesso Salles. Una condivisione del ruolo che diventa anche un affare di famiglia, dato che Fernanda Torres è solo la seconda brasiliana nella storia candidata per lo stesso premio.
“Io sono ancora qui” racconta un periodo drammatico della storia brasiliana in maniera delicata, partendo da un racconto profondamente personale, che tuttavia è archetipo di migliaia di famiglie dell’epoca. L’approccio è diretta conseguenza di una scelta dei Paiva che, come dichiarava una delle figlie di Rubens, Vera, in un’intervista del 2021 “hanno reagito cercando di non rendere singolare la nostra storia. […] Non possiamo non essere solidali con i moltissimi desaparecidos e morti della dittatura”.
E allora, le parole con cui abbiamo aperto questo articolo/recensione, tratte dalla canzone che accompagna i titoli di coda del film, sono quantomai attuali. Nel 1971 Erasmo Carlos cantava di “vergognarsi delle cose che aveva visto”, dicendo che “non sarebbe rimasto in silenzio.” Un grido disperato di un cantante che all’epoca non era certamente considerato tra gli oppositori più fermi del Regime, e che con le sue parole riuscì ad aggirare la censura brasiliana, che ad essere sinceri cadeva spesso in questo tipo di errori, come insegna il caso di “A pesar di voce” di Chico Buarque. Va segnalato, peraltro, che il catalogo di Erasmo, scomparso nel 2022, sta venendo riscoperto dalle nuove generazioni, a segnalare ulteriormente il grande impatto di questo film Salles sceglie, non a caso, di chiudere il film con la vergogna e il rifiuto del silenzio. Sentimenti quantomai preziosi oggi, continuando il nostro viaggio nei 40 anni della democrazia brasiliana, dove i nostalgici della dittatura sono stati al potere fino a pochi anni fa con il governo Bolsonaro, ma anche in molti altri luoghi del pianeta.
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