"Inseguiamo i sogni dei giovani, non i nostri di adulti"
di Guido Tallone
Novembre 2024. Da una parte giovani universitari (italiani e di altri Paesi europei – Progetto Erasmus) con gli stivali sporchi di fango che spalano tra i disperati di Valencia per liberare strade, case, cantine, scuole, biblioteche e città intere dai drammatici effetti di quella devastante alluvione che ha sconvolto la Spagna.
Dall’altra parte del mar Mediterraneo, a San Sebastiano al Vesuvio (Napoli) e più o meno negli stessi giorni, Santo Romano, di diciannove anni, viene ucciso da due colpi di pistola sparati da un ragazzo di diciassette anni perché ritenuto colpevole di avergli sporcato – inavvertitamente – le scarpe nuove costate 500 euro.
Scenari opposti che ci aiutano a non cadere – mai – nella trappola della generalizzazione (tutti i ragazzi sono fragili, ansiosi, pigri, ma anche viziati e rovinati dal cellulare, come sostengono letture pedagogiche superficiali). E che ci servono per non dimenticare che accanto ai tanti giovani che studiano e che si impegnano in forme diverse di volontariato esistono anche ragazzi e giovani che stanno così male da affidare alla violenza l’autoterapia per il loro malessere.
"Nessuno mi vede, mi sente e mi considera"
Ma vediamo come si manifesta e come cresce il malessere nei nostri giovani
Un primo dato che non deve essere trascurato è il seguente: i ragazzi alle prese con le ordinarie e straordinarie sofferenze del crescere, spesso e volentieri (vale anche per molti adulti) comunicano la propria sofferenza interiore cercando di “far stare male” chi gli è accanto. Una modalità semplice, istintiva e immediata per coinvolgere l’altro e per trascinarlo, con la forza, nel proprio orizzonte: dove – questo è il vissuto soggettivo di chi sta male – “nessuno mi vede, mi sente e mi considera”.
Disturbi alimentari, isolamento, autolesionismo o il tentativo di togliersi la vita, non sono altro – per i ragazzi/giovani che attuano questo “linguaggio” – che “parole” gridate con il corpo (rivolgendo la violenza su di sé) per attirare l’attenzione e per chiedere che il mondo degli adulti cambi il modo di rapportarsi con loro.
Chiedono cioè – con il proprio soffrire fisico e psicologico – che l’adulto si accorga di chi gli cresce accanto e che lo riconosca per quello che è, non per quello che l’adulto vorrebbe che fosse. Sono ragazze e ragazzi stanchi, stufi e “feriti” di essere considerati solo “problema” e di essere sorvegliati speciali per tutto (per le politiche giovanili non ci sono mai risorse finanziarie che, improvvisamente, si reperiscono per telecamere e video sorveglianze da puntare su strade, piazze e sui luoghi di aggregazioni giovanili). Adolescenti che non sanno come chiedere, al genitore di turno, di ridurre le aspettative su di lui e di abbassare l’asticella della richiesta di prestazioni sempre più alte (e che nessuno figlio sarà mai in grado di soddisfare pienamente). Ragazzi e giovani dimenticati spesso dai sistemi istituzionali, ma inseguiti, osservati, analizzati e studiati dal “mercato” perché ottimi clienti. Ragazzi – per dirla con una felice sintesi – di cui troppi si preoccupano e pochi si occupano.
Provare a capire chi sta male
“Ognuno di noi cresce solo se è sognato”, diceva il grande educatore Danilo Dolci (1924-1997), il Ghandi italiano. Significa che ogni ragazza e ogni ragazzo deve essere aiutato a realizzare i “suoi” sogni, non quelli che i genitori hanno fatto per lui e su di lui. E se nel crescere sei obbligato a doverti adeguare a ruoli, profili e identità decise da altri, prima o poi tenterai di scrollarti di dosso quelle catene che ti allontanano dalla tua autenticità. Catene che mangiano l’anima di moltissimi nostri ragazzi i quali si scoprono sempre meno liberi interiormente anche se – paradossalmente – oggi un adolescente è molto più libero (di viaggiare, di fare, di spendere, di acquistare beni, etc.) di 50 anni fa.
Silenzio, ribellione, indisciplina o calo del rendimento scolastico sono i primi modi con cui chi cresce esterna la sua voglia di libertà profonda da modelli predefiniti. Non significa che l’adulto debba allontanarsi dalla vita di un adolescente e rinunciare ad aiutarlo a cogliere il senso della Legge di cui il ragazzo farebbe volentieri a meno. L’esatto contrario. Vuole dire, prima di tutto, iniziare a capire che il ragazzo sta male. Subito dopo provare ad individuare “perché sta male” e – terzo – fare di tutto per scovare “dove” si nasconde il conflitto interiore del giovane che gli consuma la libertà necessaria per stare bene. Se tra le catene che lo “chiudono” in sé stesso ci sono anche aspettative troppo alte da parte dei genitori (“non mi chiudere” dicono spesso i nostri ragazzi ai genitori iperprotettivi), è il segnale – eloquente – che prima di preoccuparsi della crisi del proprio figlio è necessario curare le dinamiche relazionali ed educative che gli adulti rivolgono ai figli.
Quante volte il malessere del ragazzo dipende soprattutto da dinamiche relazionali attivate da genitori troppo severi ed esigenti, troppo iperprotettivi o troppo assenti (ma sempre alle prese con qualche troppo!). Sia chiaro: si tratta, per i genitori, di “registrazioni” e di correzioni del proprio agire educare che sono ordinarie e, vorrei dire, fisiologiche. Non si nasce genitori. Lo si diventa imparando anche dai propri errori. Ciò che è grave è non mettersi (mai!), come genitori, in discussione in presenza di adolescenti che stanno male; è grave non creare lo spazio di ascolto necessario al figlio affinché chi cresce possa avvertirsi non giudicato, ma libero di provare a cercare sé stesso anche attraverso curve, errori, pause, soste, silenzi, pianti e sfoghi di rabbia senza i quali non si sblocca una crisi di crescita. Andiamo avanti.
L’adolescente che sceglie di indirizzare verso l’esterno l’uso della violenza, scopre che portarsi “contro gli altri” non solo è utile a scappare dalle proprie fragilità, ma consegna anche una qualche identità personale che aiuta a non sentirsi una nullità. Anche perché il violento scopre abbastanza presto che il ruolo del cattivo è sempre meglio del sentirsi senza identità. “Visto che non posso fare il primo a casa mia perché c’è già il perfettino, quello che sa tutto e che non delude mai (mio fratello), ho provato a fare bene l’ultimo. E ci sto riuscendo. Alla grande.”, mi ha comunicato Fabio per provare a spiegare a sé stesso cosa provava nel suo vagabondare.
Il ruolo della famiglia
Ulteriore riflessione. Non appena chi cresce sente il bisogno di farsi aiutare dalla violenza per medicare il proprio star male, è psicologicamente collocato sul crinale di una montagna. Se la “sua” famiglia riesce ad intercettare il suo malessere, ad ascoltarlo e a creare le condizioni perché lui possa dare parola a quello stato di rabbia e di fallimento; se il territorio in cui il giovane cresce è ricco di servizi educativi, di contesti scolastici e formativi e di opportunità aggregative di qualità; se questi sostegni esterni esistono, è molto facile che l’adolescente riesca ad individuare da solo le risorse necessarie al curare la propria inquietudine interiore. Quando questo accade, in pochi semestri chi cresce “scivola” con una certa normalità in direzione del terreno fertile che lo porta alla maturità affettiva ed esistenziale.
Se il contesto familiare in cui il soggetto vive la fatica del crescere è povero di supporti educativi, culturali, istituzionali, scolastici o sportivi; se il luogo in cui si cresce è immerso nel brodo di cultura della illegalità, della prevaricazione e della legge del più forte; se la dispersione scolastica dilaga (i dati Istat ci dicono che un giovane su dieci in Italia abbandona precocemente gli studi senza concluderli e che la percentuale sale al Sud)… : se questi tasselli si incastrano tra loro e assumono una consistenza sociale persino tangibile, il ragazzo che sta male è quasi obbligato a “dirigersi” verso contesti che lo instradano sul linguaggio della violenza.
E per un adolescente arrabbiato con il mondo degli adulti perché questi ultimi sono percepiti come lontani e ostili, è rassicurante vedersi accolto dal mondo della illegalità e magari scoprirsi rifornito di una pistola! Significa passare dall’essere considerato una “nullità” all’immaginarsi, con infantile gratificazione, un potenziale boss: un percorso che riscalda il cuore di chi cerca a qualsiasi costo una qualche identità.
Da non dimenticare mai. Tanto i ragazzi che orientano la violenza verso sé stessi quanto il giovane che usano il coltello, la pistola o la violenza fisica per provare a curare il proprio star male, sono soggetti in crescita che calpestano la sola “strada” che trovano pur di uscire dalla fatica di vivere senza mai essere stati “sognati”.
Compito degli adulti che intercettano questo malessere non è inasprire le pene detentive per i minorenni alle prese con il crimine o potenziare forme di controllo impregnate di divieti, di proibizioni e delle moderne forme di sorveglianza e spionaggio. Se il grande vuoto di questi ragazzi è la libertà interiore, dobbiamo ampliare i servizi, le opportunità, le risorse e le offerte educative, scolastiche, sportive, culturali, aggregative e del tempo perché chi cresce si veda aiutato a conquistare quella piena che non è data dai beni, dai soldi e nemmeno dalla violenza.
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