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Immigrati e giornalismo: prove quotidiane di verità... coartate

Emmanuela Banfo

di Emmanuela Banfo


In maggioranza gli immigrati sono maschi, africani, legati a organizzazioni terroristiche o della malavita: niente di tutto questo. E tuttavia la percezione è questa. E tuttavia la fotografia che emerge sui media è questa. A evidenziarlo ancora una volta è il 33/o Rapporto Immigrazione 2024, su cui si è soffermato il corso di aggiornamento professionale per giornaliste/i  organizzato a Torino da GIULIA giornaliste, Concorso letterario Lingua Madre, Ufficio Pastorale Migranti-Arcidiocesi. Partendo dalla Carta di Roma, inclusa poi nel Testo Unico dei doveri del giornalista e, dal prossimo primo giugno, nel nuovo Codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti (che sarà l’unico Testo a cui la categoria è chiamata ad attenersi per non incorrere in sanzioni disciplinari) la riflessione si è concentrata sulla narrazione mediatica.

Simone Varisco della Fondazione Migrantes, proprio nell’illustrare il Rapporto, ha sottolineato che l’invasione di stranieri sui barconi fa parte, appunto, di una narrazione. Il che non significa che gli sbarchi siano una fantasia, che le tragedie nel Mediterraneo siano un’invenzione. Ma che sono uno spicchio, una parte di una realtà ben più ampia e che se quella parte la scambiamo per la totalità, il risultato è errato. Puntare i riflettori unicamente su un aspetto significa deformare, manipolare l’esistente.


Le cifre del 33° Rapporto immigrazione

La realtà, numeri alla mano, ci dice che sono circa 5 milioni e 308 mila gli stranieri residenti in Italia, pari al 3,2% rispetto al 2023, che oltre 200 mila di loro hanno conseguito la cittadinanza nell’anno e che rappresentano complessivamente il 9% della popolazione residente in Italia. Tutti africani? No, al primo posto nella classifica dei Paesi di provenienza è la Romania, seguita da Albania e, ben distanziata, dal Marocco. Tutti scappano da guerre e povertà? No e nel registrarlo non si vuole affatto dire che non siano tra le motivazioni che spingono all’ emigrazione, ma semplicemente che non sono i soli e neppure gli unici vettori della mobilità.

Al primo posto non ci sono le richieste di asilo, di protezione umanitaria bensì di ricongiungimento familiare (46%), di ricerca di lavoro (40%). Da non sottovalutare specialmente nelle donne, il movente della libertà, il desiderio di emancipazione, di cercare luoghi dove le proprie aspirazioni possano avere soddisfazione. Non è banale riconoscere che le persone, di pelle chiara o scura, di qualunque origine etnica e di qualunque orientamento sessuale, ha insito il desiderio di valorizzarsi. In un mondo globale è lecito sperare che le persone possano legittimamente muoversi oltre i confini nazionali. Il diritto alla dignità non ha barriere geografiche e neppure sociali. In Italia non si parla mai di diritto alla felicità, ma, se ben ci pensiamo, è l’ideale di ogni essere umano.

E’ qui che s’annida uno dei più frequenti stereotipi perpetuati da una parziale e perciò inesatta, superficiale, narrazione giornalistica. Non sempre l’immigrata o l’immigrato è povera/o, con abiti sdruciti, questuante per le vie delle città. L’immigrazione femminile, per esempio, è stata la prima a segnare il cammino verso l’ Europa. Il più delle volte sole o con i figli appresso, il più delle volte con competenze professionali, le donne migrano anche per il bisogno di migliorare la qualità della vita loro e dei loro familiari. E nella maggioranza dei casi non migrano dal Mediterraneo sui barconi della morte. Anzi, si registra un costante incremento di immigrati/e dalla rotta Balcanica, sempre più provenienti dall’Asia, dall’India, in particolare dal Bangladesh, anche a causa dei fenomeni climatici estremi sempre più devastanti. Eppure è significativo come lo stesso Ministero dell’Interno quando registra i nuovi arrivi parla di ‘sbarchi’.


Parole, immagini e prospettive

Altrettanto quando si parla di criminalità occorre non cadere nel pregiudizio fuorviante perché se è vero che il 30% della popolazione carceraria è straniera altrettanto è vero che lo è per mancanza di alternative: a parità di reato, perché non residente o perché si presume ci sia pericolo di fuga, allo straniero non sono concessi gli arresti domiciliari, altrimenti concessi agli italiani. Varisco come Daniela Finocchi, ideatrice del Concorso nazionale Lingua Madre e direttora del magazine on line, Elena Miglietti di GIULIA, oltre che docente della Scuola Holden, hanno rimarcato non soltanto la necessità che il giornalismo usi un linguaggio corretto, ma anche una narrazione corretta.

Oltre al linguaggio c’è il racconto che non è fatto solo di parole, ma di immagini, di una prospettiva, di un’angolatura da dove la/il giornalista si posiziona per svolgere la sua descrizione. Esemplificativo l’esercizio proposto da Miglietti. Digitando su Google "beach volley femminile" appaiono tanti bei fondoschiena in primo piano, digitando quello maschile, normali tute per nulla sexi. Il corpo della donna è ancora usato per veicolare ogni tipo di pubblicità e per favorire un certo voyerismo. Così come nella cronaca sportiva si continuano a usare espressioni come partita "maschia", performance "muscolare". Le donne capaci, si sa, sono mascolinizzate, non è dato che siano capaci e basta.


Liberiamoci degli stereotipi

Dunque se l’immigrazione è vissuta, percepita come fenomeno emergenziale, madre di tutti i problemi sociali, è perché tale si vuol far credere e la comunicazione veicola questa lettura. In questo senso Daniela Finocchi ha richiamato l’attenzione sulla continua creazione di stereotipi, quello ‘cattivo’ dell’immigrato pericoloso o quello ‘buono’ dell’immigrato sempre fragile, bisognoso, che può vivere soltanto sotto tutela. Così le donne non possono, non devono, continuamente essere al centro di notizie soltanto se vittime o eroine. Ma questo – riconosciamolo - è il vizio assurdo del giornalismo : nel giornalismo non trova posto la normalità.

E’ nel DNA del racconto giornalistico occuparsi di casi estremi, non di ordinaria amministrazione. E tuttavia è l’ordinaria amministrazione che fa parte del nostro quotidiano, è questo l’ambito nel quale nascono le relazioni umane. Il vicino di casa, ingegnere proveniente dalla Nigeria, che ogni giorno accompagna i suoi bambi a scuola. La negoziante, di madre marocchina, che gestisce la cartoleria sotto casa. La giovane tunisina che insignita dal presidente Mattarella del riconoscimento di Cavaliera della Repubblica, non ha la cittadinanza italiana e quando la senti parlare chiunque non può fare a meno di stupirsi e indignarsi. La società civile, la sua coesione, si costruisce proprio su questa cosiddetta banalità invisibile, silenziata dai media. Eppure questa è la realtà. Un giornalismo che non la intercetta, che perde il contatto con la società civile, perde la funzione primaria che lo erge a uno dei più importanti indicatori della democrazia di un Paese. Se resta subordinato a logiche narrative strumentali, politicamente orientate, tradisce se stesso.

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