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Il sogno "costoso e pericoloso" del Ponte sullo Stretto


In un contesto territoriale come lo Stretto di Messina, che soffre innumerevoli problematiche sociali ed economiche, dovrebbe sorgere la più grande opera d’ingegneria mai costruita, il ponte più lungo al mondo, con una campata unica di oltre tre chilometri. Esso, secondo i promotori, starebbe in piedi anche in caso di terremoti di straordinaria intensità, consentirebbe il transito veloce di mezzi gommati e treni, favorirebbe lo sviluppo economico della Sicilia e della Calabria, darebbe lustro all’Italia e attirerebbe milioni di turisti.

Da diversi mesi questa narrazione circola prepotentemente su molti media nazionali, sostenuta da lobby del cemento agguerrite e affamate di profitti, da giornali di propaganda che martellano l’opinione pubblica con articoli di parte, con il fine di far passare un desiderio di pochi come un pensiero dominante e condiviso da tutti.

La realtà delle cose è che l’opera in questione presenta molti rischi e lo stesso progetto del ponte è gravemente difettoso.

Ecco dunque una serie di riflessioni sintetiche che la comunità dovrebbe prendere seriamente in considerazione:

– il ponte sullo Stretto avrebbe una luce di 3,3 km, assai più ampia di qualunque altra mai realizzata; la distanza massima fra due piloni attualmente è quella del ponte Çanakkale Bridge, sullo Stretto dei Dardanelli (Turchia, 2023) ed è di 2 km;

–  ad oggi, sono davvero pochi i ponti strallati di grandi luci in grado di consentire il transito di treni; il record attuale è di appena 1,4 km (Ponte Tsing Ma, ad Hong Kong); il transito di un convoglio ferroviario pone problemi di stabilità e i rischi di svio sono elevati in relazione anche alla snellezza dell’impalcato;

–  la capacità del ponte di resistere a terremoti di grande intensità è tutta da dimostrare, ma viene assunta come un motivo per rassicurare la gente sulla tenuta della struttura; l’assurdo è che lo stesso terremoto potrebbe radere al suolo le aree urbane sulle due sponde, caratterizzate da un tessuto edilizio fragile, un suolo piuttosto disomogeneo e instabile, una assoluta mancanza di misure di prevenzione idrogeologica e antisismica; 

–  il pilone sulla sponda calabra (ben 400 m di altezza) sarebbe posizionato su una faglia pericolosa individuata da tempo dagli esperti di geologia, con grave rischio di instabilità alle fondamenta;

– azioni combinate di forze agenti sul manufatto, in particolare le azioni del vento, potrebbero fare oscillare pericolosamente l’impalcato, al punto che si prefigura uno stop al transito dei veicoli in tali circostanze;

– una incauta gestione della manutenzione a vantaggio del profitto gestionale (vedi esperienza del ponte Morandi a Genova) potrebbe produrre un dramma di immani proporzioni;

– il ponte potrebbe essere un attraente e facile bersaglio da colpire per malintenzionati kamikaze, terroristi, mafiosi, facendo scempio in un attimo dell’infrastruttura e dei disgraziati civili in transito, bruciando un simbolo della cultura neoliberista come cartapesta;

– i promotori del ponte affermano che l’opera potrebbe determinare un importante impulso allo sviluppo  economico della Sicilia e della Calabria; molti studi autorevoli evidenziano in realtà l’assenza di correlazione diretta tra grandi infrastrutture e sviluppo economico del territorio attraversato. Peraltro lo stesso ministro delle infrastrutture ha affermato pubblicamente di recente, citando uno studio  di OpenEconomics, che gli impatti economici prevalenti ricadrebbero sulla Lombardia piuttosto che sulla Sicilia (PIL generato dal ponte tre volte superiore);

–  l’idea che grazie al ponte si darebbe vita a una città metropolitana dello Stretto, annullando il distanziamento temporale fra le due sponde, non sta in piedi; con i suoi raccordi lunghi, il ponte costituirebbe un vero e proprio by-pass delle città dello Stretto, marginalizzandole  pesantemente. Ed è facile da dimostrare che il costo di viaggio generalizzato (somma di tempo e prezzo) fra Reggio Calabria e Messina sarebbe assai maggiore di quello odierno, essendo la lunghezza del percorso da centro a centro più lunga e il pedaggio previsto per i veicoli pari o superiore a quello pagato per il transito a bordo nave (40-50 € per un’auto, oltre 100 € per TIR e autobus);

– qualcuno si spinge a dire che l’ardito ponte potrebbe generare un grande effetto mediatico internazionale e attirare folle di turisti come nel caso della Torre Eiffel o della Statua della Libertà. L’attrattiva turistica andrebbe in realtà rapportata al contesto locale ed è arduo paragonare Parigi o New York all’area dello Stretto, dato che quest’ultima è stata martoriata da un secolo di politiche urbanistiche, sociali ed economiche deleterie; oltretutto, i turisti starebbero ad osservare il manufatto da terra o viaggiando via mare, non certo passeggiando sull’impalcato;

–  un assunto da sfatare è quello dei rilevanti flussi di traffico che potrebbero circolare attraverso il ponte (una discutibile ipotesi assunta dal team di progettisti, pro domo sua, è che cessi completamente il traffico con traghetti e catamarani); a parte l’effetto negativo in termini di inquinamento determinato dagli autoveicoli, occorre notare che il grado di saturazione della carreggiata nelle ore di punta di un giorno medio non andrebbe oltre il 15-20%, ovvero la capacità dell’infrastruttura sarebbe esagerata rispetto alla domanda, quindi fuori da ogni logica tecnico-economica. I trend di traffico risultano decrescenti da tempo (basta leggere le statistiche relative agli ultimi 30 anni: le merci, dalla e verso la Sicilia, viaggiano sempre più via mare e le persone preferiscono di gran lunga l’aereo);

–  i potenziali di occupazione prefigurati dal ministro si sono rivelati gonfiati; dai 120 mila occupati iniziali promessi si è scesi a poche migliaia di unità, in linea con recenti esperienze in altre parti del mondo; la principale fonte di lavoro per le maestranze locali sarebbe rappresentata dai movimenti terra, con centinaia di camion in circolazione, per lo  sventramento del territorio dello Stretto e la distribuzione delle terre in discariche sparse;

–  i costi di realizzazione dell’opera non sono certi; sono stati indicati in 15 Miliardi € circa, ma è noto che in fase esecutiva in Italia i costi delle infrastrutture lievitano sempre in modo considerevole, come insegna l’esperienza della TAV e di alcune autostrade;

–  ancora oggi, non esiste una reale copertura finanziaria dell’opera, né da parte del Governo italiano né da parte della Commissione europea; neppure fondi PNRR; si intuisce che il progetto non è preso in seria considerazione dalle autorità di governo; d’altra parte neppure i grandi gruppi della finanza mondiale si fidano e si guardano bene dall’avanzare una proposta di cofinanziamento (l’esperienza bruciante del tunnel in project financing sotto la Manica ha insegnato qualcosa);

–   occorre rimarcare un iter progettuale alquanto inusuale: avulso da logiche di pianificazione territoriale e dei trasporti, da un sano processo di dibattito pubblico, è stato elaborato frettolosamente un progetto  definitivo apportando correttivi in ordine sparso al progetto bocciato dal governo Monti nel 2011, generando una selva di critiche ed osservazioni tecniche; si è giunti addirittura ad ipotizzare un percorso progettuale esecutivo per stralci alquanto anomalo e rischioso.   

Il progetto del ponte sullo Stretto di Messina è un progetto calato dall’alto, che nasce vecchio, concepito come un’opera fortemente onerosa e speculativa; si ha ragione di pensare ad una chimera per allocchi; e non conforta certo la scarsa credibilità del ministro delle infrastrutture. La domanda che cittadini, autorità di governo e tecnici dovrebbero porsi è: «cosa serve realmente per migliorare le condizioni di vita della comunità meridionale e le relazioni tra le regioni del Mezzogiorno, in un’ottica di sostenibilità ed equità sociale?».

Si afferma qui l’opportunità di un’alternativa di progetto fatta di opere utili e sostenibili, diffuse su un ampio territorio, capaci di imprimere una svolta decisiva alla crescita equilibrata e traducibile in servizi di trasporto in ottica di bene comune. Anziché una sola grande rischiosa opera strutturale, che potrebbe generare un danno ambientale senza precedenti e ricadute sociali ed economiche rovinose, sarebbe preferibile potenziare il trasporto marittimo con una flotta di navi di proprietà pubblica, allineando la tariffa al parametro autostradale standard (0,25 €/km). Le risorse della comunità vanno spese per apportare vantaggi concreti alla popolazione, in primo luogo per l’area metropolitana dello Stretto, non per soddisfare lobby del cemento o della finanza liberista.


*Docente di Ingegneria dei Trasporti presso l'Università Mediterranea di Reggio Calabria


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