Il Sacro al tempo del virus
Aggiornamento: 19 mag 2023
di Luca Rolandi
Chiese chiuse, senza comunione eucaristica per il popolo di Dio, tutto è carità e preghiera. Siamo nella settimana santa per i credenti cristiani e anche per la comunità ebraica: un momento centrale nella vita liturgica e per gli stessi fondamenti della fede. E mentre tutto è immerso negli sforzi di cura contro il Codiv-19, torna a farsi luce, e non avrebbe potuto essere altrimenti, un dibattito sul ruolo pubblico delle religioni, sulla dimensione sacrale e rituale della spiritualità delle fedi in relazione ad alcuni impedimenti e blocchi provocati dal distanziamento sociale, in particolare in Italia e la sua tradizione cristiana.
Il corpo biologico va alimentato per sopravvivere e quello spirituale? A chiederselo molti osservatori indiretti, insieme a pastori e religiosi. Bastano la preghiera, la meditazione, il silenzio, la celebrazione a distanza (possibile con le nuove tecnologie) ? Oppure manca il senso di comunità, della celebrazione che vive in solitaria il prete, e la possibilità di comunicarsi per il credente cristiano? Su questo tempo il dibattito si sta facendo davvero interessante. Non ci sono solo l’uscita strumentale del leader della Lega Matteo Salvini, le repliche di Fiorello e le confuse perifrasi di esponenti illustri e naif, per esempio l’ex cronista Paolo Brosio, di un fondamentalismo cattolico soprattutto o di altre fedi religiose.
Si assiste a un dibattito interessante perché coinvolti pensatori di area laica e cattolica, che nel rispetto della laicità dello Stato, ragionano sull’elemento straordinario, solo poche volte verificatosi nella storia recente, della mancanza delle celebrazioni nella Settimana Santa e di quelle ordinarie. Senza che si ritorni alla svolta Costantiniana o, prima, alla persecuzione delle prime comunità cristiane, lo storico delle religioni Massimo Introvigne ricorda che “le chiese furono chiuse per diversi anni durante la Rivoluzione francese. I vescovi le chiusero in Messico nel 1926 per protesta contro le misure anticlericali di Calles, e rimasero inaccessibili ai fedeli durante la guerra civile dei Cristeros fra il 1926 e il 1929. Infine, il loro accesso fu vietato in Albania, durante lo Stato ateo imposto dal dittatore comunista Enver Hoxha”. E ancora oggi i cristiani perseguitati e che spesso non possono assistere e celebrare la messa sono migliaia.
La presenza di Papa Francesco il suo carisma e la sua profezia sono molto, ma non tutto per comprendere disagio e sentimenti che vivono nel mondo cattolico, gerarchico e clericale, i laici impegnati del composito mondo credente. La provocazione lanciata dal poeta Davide Rondoni che chiede, sul Quotidiano Nazionale, “di non toglierci quel corpo”, il corpo e il sangue di Cristo presenti nella transustanziazione, carne viva e presenza Eucaristica di Cristo nella celebrazione, ha innescato il confronto. Lo stesso direttore del dorso nazionale Michele Brambilla, giornalista di lungo corso, laico, cattolico, adulto e dialogante, ha opposto all’idea di Rondoni la rievocazione della virtù cardinale della prudenza. Ancora e di più il quotidiano italiano più letto e autorevole, il Corriere della Sera, pubblica in prima pagina un editoriale del vice direttore, laico di formazione marxista riformista, ex giornalista de l’Unità a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta, Antonio Polito, che indica il cristianesimo come fattore decisivo dell’identità italiana e si rivendica il “sacro” come “formidabile strumento di tenuta e coesione” sociale. A Polito risponde il saggio e decano tra i giornalisti cattolici del mondo progressista (secondo una vecchia classificazione) Raniero La Valle, che evidenzia come “il cristianesimo sia precisamente l’evento che ha operato il passaggio dalla legge del sacro alla libertà della fede, dalla pesantezza dei riti all’interiorità dell’adorazione in spirito e verità, dal timore del Dio “affascinante e terribile” alla visione del Dio sfigurato, mansueto e vivificante della croce”.
Insomma un tema sul quale, il confronto, sembra emergere, confrontandosi con l’indicazione di Papa Francesco “La vita serve se è servizio”, nella logica della concretezza esistenziale, incarnazione cristiana, che nel servizio, sempre più volte trasformato in martirio di medici e infermieri, o nell’oscuro, ma illuminante lavoro dei volontari e di chi si fa prossimo verso gli altri, sono esempi di vita cristiana o religiosa in senso lato che, nella contingenza superano il momento sacramentale ed eucaristico diventando loro stessi membri e corpo del Cristo sofferente.
Il mistero della morte e il suo legame con la vita, l’impossibilità di poter salutare con un abbraccio umano e una preghiera in presenza un proprio congiunto, famigliari o amico, ora si trasferisce nel silenzio della celebrazione, della chiesa senza comunità, nella messa solitaria, in presenza, di preti e religiosi. La già ricordata solitudine del prete, lontano dalla comunità, chiuso nel suo intimo e celebrante unico di un mistero grande, ci riporta alle pagine profonde del romanzo di Georges Bernanos “Diario di un curato di campagna”. Allora, in attesa di ritrovare la comunità cristiana ed aprire le chiese e i tempi, le moschee e le sinagoghe, promuovere l’impegno nella carità e nella fede che s’innerva nella vita di preghiera, digiuno, lontananza e deserto, può essere una risposta.
L’inchiesta poi del quotidiano il Foglio, sempre sensibile e mai banale sul tema religioso, a cura di Piero Vietti e Matteo Matzuzzi “Oltre la messa in streaming”, sul tema “La comunione è un bene necessario? Perché è giusto discutere di come e quando si potrà tornare in chiesa, evitando rischi e strumentalizzazioni”, ha fatto da apripista agli interventi di Introvigne, dei vescovi di Ventimiglia-Sanremo, Antonio Suetta, e di Bologna, Matteo Maria Zuppi. Interventi che paiono molto pertinenti e interroganti sulla dimensione religiosa vissuta, sia pure in una condizione di secolarizzazione avanzata e una realtà di cristianesimo di minoranza rispetto al mondo.
Le parole che mi paiono più indicative per dare profondità e significato a questa riflessione, aperte e plurale, senza steccati e nella migliore tradizione jemoliana, sono i pensieri espressi sempre su “Il Foglio” dal sociologo Luca Diotallevi: “Quando sarà possibile senza mettere a repentaglio altre vite torneremo a celebrare la messa, adesso cerchiamo di non trasformare lo schermo in un tabernacolo. Intanto, ricordiamo che ciò che salva è il dono che Gesù fa di sé e che lo Spirito, anche se tutta la faccia della terra si celebrasse una sola messa, continuerebbe ad associare ogni uomo e ogni donna al sacrificio redentore di Nostro Signore”. E, per concludere, in questo viaggio nella Settimana Santa, cito le parole del teologo torinese don Roberto Repole che su Vatican Insider scrive: “Se non ci è impossibile celebrare insieme l’Eucaristia, è possibile santificare quel tempo”.
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