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Il racconto. Jugonostalgia al caffé Tito di Sarajevo

Marco Travaglini

di Marco Travaglini


La prima volta mi ci sono imbattuto per caso, voltando sul retro del Museo di Storia nazionale di Sarajevo dove è conservata la preziosissima Haggadah, il più antico documento sefardita del mondo, scritto a Barcellona intorno al 1350 e portato nei Balcani dagli ebrei in fuga dalla Spagna. A pochi passi dalla Ulica Zmaja od Bosne e dalla riva destra della Miljacka, quasi di fronte al quartiere di Grbavica sulla riva opposta del fiume, c’è il Caffè Tito. Tra pareti dipinte di rosso e di verde si viene accolti dall’esposizione di ogni tipo di materiale bellico, dai kalashnikov fissati alle pareti agli elmetti appesi al soffitto e usati come portalampade. Nel dehors si può stare seduti su di una cassa per munizioni di mortaio, sorseggiando un boccale di bionda e fresca Sarajevska pivara. Ci sono persino un M3-M5 Stuart, il carro armato leggero di fabbricazione americana usato nella Seconda guerra mondiale, con a fianco un esemplare di sIG-33 (schwere Infanteriegeschütz ), un obice tedesco usato come arma di appoggio dai fanti della Wehrmacht che venne probabilmente catturato dai partigiani jugoslavi. L’interno un piccolo museo che propone un busto in bronzo del leader della Jugoslavia e moltissime foto di Tito incorniciate e appese ai muri: in vacanza sulle isole istriane di Brioni, mentre ispeziona le truppe, al fianco di Churchill, Che Guevara, Castro; mentre discute con JFK poco tempo prima che il presidente degli Stati Uniti fosse ucciso a Dallas o con attori famosi da Richard Burton a Elisabeth Taylor, Sofia Loren e Gina Lollobrigida. Sul muro c’è l’orologio fermo sull’ora e il giorno della sua morte: le tre e zero cinque del quattro maggio 1980.

Girando per i locali si possono ammirare il quadro che descrive la battaglia della Neretva, la serie di suoi ritratti a carboncino accanto a vecchie pagine di giornale incorniciate dove di parla sempre di lui. Scritte che gridano slogan come “Druze Tito, mi ti se kunemo” (compagno Tito, noi te lo giuriamo) “Smrt Fašizmu Sloboda Narodu” (a morte il fascismo, libertà al popolo). Strana città, Saraievo. E’ il luogo dove si è data appuntamento la storia dai Romani fino ai Turchi, mescolando origini ed etnie mentre oggi s’irrigidiscono i nazionalismi. Un detto veniva un tempo ripetuto con un certo orgoglio: sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito. Lui, il garante della complessa unione degli slavi del sud, conservata per decenni nel mito della lotta partigiana e gelosamente difesa da est e ovest, non ha potuto assistere al crollo e alla dissoluzione del sogno jugoslavo.

Nel Caffè le immagini sono statiche, fissate dal tempo come nei libri di storia mentre, oramai a quasi quarantacinque anni dalla sua morte, la figura di Tito resta lì, sospesa nel limbo, ancora scomoda e difficile. In tanti vorrebbero dimenticarla e altrettanti la rivendicano in un soprassalto di nostalgia. Non bisogna farsi trarre in inganno, però: al caffè e a ciò che ci circonda, quasi nessuno ci fa caso. Non c’è un fervore titino da parte dei clienti. Solo un paio di anziani, viene raccontato, vengono di tanto in tanto, comandano una rakija e mentre se la bevono lentamente ispezionano i muri quasi temessero che l’immagine di Tito potesse d’un momento all’altro sparire. I ragazzi si fermano a bere, fanno festa e quando il clima lo consente preferiscono sedersi all’aperto sotto il portico.

Altri ragazzi della loro età, soltanto trent’anni prima, percorrevano le strade di Sarajevo scandendo come un mantra lo slogan Mismo Walter, "noi siamo tutti Walter", tentando di fermare la corsa pazza vero la guerra etnica che s’avvicinava minacciosa. Agitando migliaia di bandiere arcobaleno ripetevano all’infinito uno dei nomi clandestini del partigiano Tito, del comandante dell’esercito popolare che unì serbi e bosniaci, sloveni e croati, montenegrini e macedoni nella lotta contro i nazisti. Quanti erano? Centomila? Forse anche di più. Col passare del tempo tutto cambia e oggi anche l’antifascismo è poco più di un rito e persino l’inespugnabile bunker di Tito a sud di Sarajevo è stato aperto alle visite dei turisti per fare cassa.

“La lezione della guerra non è servita”, confidò diversi anni fa parlando con Paolo Rumiz un serbo, Milutin Jovanovic, studente di  Scienze politiche in Italia, nato a Niš durante il conflitto balcanico. “Trionfa tutto ciò che lui aveva bandito: vessilli, identità regressive, fascismi”. Si vede persino celebrare Draza Mihajlovic, acerrimo nemico di Tito e capo dei cetnici, gli ultranazionalisti filo-monarchici serbi della Seconda guerra mondiale. C’è persino chi va in pellegrinaggio sulla tomba di Slobodan Milosevic tenendo in pugno una candela accesa, con l’intento di rendere omaggio a colui che ha trascinato la ex-Jugoslavia nel disastro. Milutin, dialogando con Rumiz, aggiunse: “Pare quello che accade in Italia con Garibaldi. Anche il nostro mito unitario è denigrato con argomenti clericali e separatisti. Accusano Tito di avere odiato i serbi e di aver voluto unire ciò che era impossibile tenere assieme”.

Appunto, sei nazionalità, quattro religioni, tre alfabeti e una decina di lingue diverse. Intanto, nel locale, un uomo di mezza età dall’aspetto distinto, allunga una mano sul busto. Sembra quasi che accarezzi il volto scolpito. Guarda nella nostra direzione e, prima di andarsene, ci dice in serbo-croato, sottovoce: “Che tristezza!”. Scuote la testa più volte e aggiunge un “mala tempora currunt” che capisco anch’io. Ci dicono, più tardi, che è un professore di latino e filosofia all’Università di Sarajevo che, di tanto in tanto, a volte senza nemmeno consumare un bicchiere d’acqua, s’aggira sconsolato tra le reliquie del locale. E’ la Jugonostalgia, sentimento che si concentra su aspetti emotivi e simbolici di un passato che può risultare più appetibile di un presente largamente insoddisfacente. Decidiamo che è il momento giusto per un’altra birra, brindando alla speranza di tempi migliori.


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