Il metodo Netanyahu
Aggiornamento: 20 ott
di Michele Ruggiero
Una novantina di vittime, la metà o poco meno feriti: il bilancio dei raid israeliani che hanno avuto come obbiettivo Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza e di cui si parla oggi, domenica 20 ottobre. Un bilancio ancora provvisorio, secondo più agenzie. Se si cerca notizie su Beit Lahiya, che letteralmente significa La casa della fatica, Wikipedia ci soccorre con una descrizione che ti rapisce come il fascino del suono del vento e dei silenzi del deserto: "circondata da dune di sabbia". Da oggi, però, Beit Lahiya - che non è più certamente quella che si vede nella foto tratta di Wikipedia - è circondata anche da morti, da dolore e da rabbia. E ci si può scordare di far galoppare la fantasia per il profumo agreste emanato dai suoi fichi di sicomoro, dalle bacche e gli alberi di agrumi, nutriti dall'acqua fresca per cui va famosa la città. Oggi di fresco, c'è soltanto il sangue della morte. Che nella Striscia di Gaza non manca mai, come la fame e le malattie. Al contrario, non c'è mai abbastanza sangue per le trasfusioni ai feriti.
Il premier dello Stato di Israele, Benjamin Netanyahu ne può andare fiero, perché ha imposto ai palestinesi un metodo - diventata legge di guerra - con lo strapotere dell'apparato militare del suo Paese sostenuto dagli Stati Uniti: quello che dall'esperienza derivi una verità assoluta e unica, la sua. Più si uccide e più si garantisce la sicurezza di Israele. E non ha importanza alcuna se ad oggi, macellando il macellatore Hamas, l'effetto collaterale sia decine e decine di migliaia di morti, in maggioranza bambini, donne e anziani. Ciò che conta è l'eliminazione di più generazioni di un popolo, simbolicamente (ma non sempre) gettato in una fossa comune ad ardere, a bruciare, per vivificare e alimentare la fiamma della vendetta che Netanyahu vuole inesauribile, cinicamente consapevole che la morte non potrà che reclamare soltanto altra morte e che l'odio inseguirà perennemente altro odio. Una garanzia per il futuro...
Se poi il mondo, o una parte di esso, atterrito e inorridito da questa e da altre guerre, si interroga sulla legittimità delle azioni militari di Israele e critica il governo di Tel Aviv, reclamando in alcuni casi in cui in vince l'ipocrisia, una verità diversa, improntata all'onestà intellettuale e permeata di saggezza e di umanità, interviene con la stessa prontezza dell'IDF sempre il metodo Netanyahu, che rovescia sugli incauti moniti e richiami per i rischi di antisemitismo. Che esistono, ma che non hanno parentela alcuna con il diritto alla critica.
Del resto, per quanto costato vite umane innocenti, al punto che si discute se a Gaza non si tratti di genocidio del popolo palestinese, quello stesso metodo, e Netanyahu ne è doppiamente orgoglioso, ha saputo estirpare dall'ebreo - qui si prende a prestito una tantum una frase usata da Amos Oz nel suo libro "Contro il fanatismo" - quel limite ancestrale di non andare d'accordo neppure con sé stesso.
In realtà, è stato un limite solo apparente che per decenni si è quantomai rivelato prodigo a fare camminare insieme con le proprie ragioni anche quelle degli altri: un'autentica manna dal cielo per il popolo di Israele potremmo dire, perché nel litigio, nella discussione e anche nella babele di incomprensioni, è stato capace di tenere a freno il fanatismo e ha suscitato il desiderio, non soltanto intellettuale, di provare a capire, come scrisse più di trent'anni fa Muhammed Darausha, nell'epigrafe al libro di Grossman "Un popolo invisibile, i palestinesi d'Israele", quali sono "i veri pensieri" di chi oggi viene massacrato dal metodo Netanyahu.
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