Il grande gioco della SCO per un nuovo ordine mondiale
Aggiornamento: 19 set 2022
di Germana Tappero Merlo
I due giorni di incontri a Samarcanda, in Uzbekistan, della Shanghai Cooperation Organization (SCO)[1] si sono chiusi con le solite foto fra sorrisi ed abbracci ufficiali, ma anche con esplicite manifestazioni di preoccupazione di Cina e India per le implicazioni e le conseguenze della guerra di Putin in Ucraina. Il premier indiano Narendra Modi ha anche redarguito pubblicamente e in modo perentorio il collega Putin, affermando che “non è l’epoca per fare le guerre”, laddove invece “democrazia, diplomazia e dialogo tengono unito il mondo”. Putin, quindi, pare sia stato trattato da quei suoi alleati con un ruolo da figurante e bacchettato come uno scolaro indisciplinato.
Le reali preoccupazioni di Pechino e New Delhi
Per quanto rilanciata dai media occidentali, soprattutto statunitensi, come una presa di posizione contro le ambizioni belliche, espansionistiche ed anti-atlantiste del leader russo, di fatto, in cima alle preoccupazioni indiane e soprattutto cinesi, non vi sono né i turbamenti degli atlantisti nostrani per la difesa della democrazia - come spera Washington - e men che meno la sorte dei civili ucraini. Sia chiaro infatti che, da quanto emerge dai commenti ed analisi di osservatori e media asiatici, ciò che preoccupa Pechino e New Delhi sono esclusivamente le ripercussioni di quella guerra sull’economia globale, in cui entrambi sono fra i protagonisti dominanti e da cui dipendono benessere, salubrità e sicurezza degli oltre 2,6 miliardi di loro connazionali.
Ad impensierire Xi Jinping e Modi, quindi, non sono le implicazioni politiche dell’operazione speciale russa in Ucraina: costoro, infatti, pur tentando di rimanere neutrali verso Kiev, hanno pubblicamente riconosciuto le ragioni di Mosca e hanno aumentato i loro acquisti di petrolio russo - addirittura di dieci volte per New Delhi nei soli primi tre mesi di guerra - compensando così le perdite dovute alle sanzioni occidentali. Ciò che temono è il crescente bellicismo espresso da Putin e dal suo entourage più stretto che metterebbe in stallo i loro progetti economici e finanziari nella vasta regione centroasiatica.
Affari che per la Cina sono accordi già firmati, come quello di 15 miliardi di dollari con l’Uzbekistan[2], così come con il Kirghizistan e l’Afghanistan (sebbene il governo talebano non sia stato invitato all’incontro) per il passaggio di infrastrutture, mentre l’India, la cui élite politica da lungo corteggia Mosca, ha già subito l’interruzione di forniture russe di armi (era il primo per l’India, che ora sta intensificando acquisti da altri Paesi ed ha aumentato la propria produzione) e di quelle alimentari, come pure di fertilizzanti ucraini, oltre ad aver subito l’evacuazione forzata di migliaia di suoi studenti dalle università ucraine.
I progetti di integrazione economica
Contratti, quindi, attraverso cui Pechino vorrebbe consolidare la propria influenza, e perché no?, proprio nel momento in cui Mosca, distratta dall’Ucraina, sta perdendo terreno nelle regioni che furono, a suo tempo, parte pulsante della vecchia Unione Sovietica, ma non solo, viste le già note folate secessioniste[3] in Siberia che hanno ripreso a soffiare poderose come i suoi gelidi venti.
Tuttavia, ridurre il disappunto cinese e indiano alla guerra di Putin in Ucraina esclusivamente come intralcio all’integrazione economica fra quegli Stati è ancora troppo riduttivo, anche perché, nel grande gioco posto in atto poco oltre i confini orientali dell’Unione Europea, le ambizioni della SCO sono politiche e di più ampio respiro, ove la decostruzione dell’egemonia dell’Occidente sull’intero pianeta e la volontà di far emergere “nuovi centri di potere” (parole di Putin), in pratica la transizione verso il multipolarismo, detengono un ruolo dominante.
Se il punto di partenza dell’incontro a Samarcanda è stato, ancora una volta, quello di ribadire la volontà a favorire un renmimbi come valuta di riserva per l’Asia sino a togliere potere al dollaro nelle transazioni internazionali, permettere l’ingresso dell’Iran nell’organismo asiatico ha significato avvalorare l’intenzione di quell’organismo di allargarsi verso il Medio Oriente sino al Nord Africa. Ambizione e determinazione, quindi, si sono rivelati come tratti salienti degli incontri di Samarcanda.
Le ambizioni panturche di Erdogan
Insomma, un’ampia alleanza per un nuovo mondo multipolare, a cui non è affatto estraneo un altro soggetto, quel turco Erdogan che, a fronte dell’appartenenza alla Nato – affiliato, comunque, alla SCO dal 2013 e primo membro dell’organizzazione atlantica a partecipare ad un organismo a guida cinese -, e sempre con il sostegno di Washington, non sembra rinunciare ad ampliare la sua sfera di influenza anche in nome di un separatismo panturco musulmano, quindi per etnia e religione, proprio nei territori dell’ex Unione Sovietica. Spinte secessioniste con inevitabile danno e disappunto di Mosca.
Non sembrano credibili, e quindi sufficienti, le garanzie date dai consiglieri di Erdogan circa l’intenzione di Ankara di voler “creare relazioni equilibrate più che cercare alternative all’Occidente”, ossia e in pratica preferire Pechino a Washington[4]. Il timore che queste ambizioni secessioniste vengano alimentate dall’esterno (Stati Uniti) sotto le insegne delle ennesime rivoluzioni colorate, seppur ad oggi fallite, ma comunque destabilizzanti, a parere di tutti gli altri protagonisti della SCO, è però più che fondato.
L’armonia di comportamento ed intenti fra i membri la SCO diventa quindi prioritaria affinché si possa procedere verso la complessa transizione multipolare, ed avviare così l’era asiatica a scapito di quella statunitense, che è poi il vero obiettivo strategico finale del grande gioco del nuovo millennio. Armonia, quindi, e non guerra. Questa è la parola d’ordine che è circolata nei due giorni di Samarcanda.
La Grand Strategy del XXI secolo
Ma, appunto, qualcosa di gran spessore rischia di compromettere tutto ciò. Se, da parte di Mosca, il rimarcare con le armi l’identità russa in Ucraina o difendere il suo ruolo egemonico nello spazio post-sovietico a fronte di venti secessionisti, è in coerenza con un sentito e condiviso panslavismo del vecchio Nikolaj Danileskij (1822-1885), più che dell’euroasiatismo di un Alexandr Dugin[5], di fatto queste ambizioni esclusiviste di Putin, come quelle del turco Erdogan a favore di un primato dell’identità pan-turca e persino del turanismo[6] sull’eredità russa nei vasti territori ex-sovietici rischiano di alimentare le opportunità di quel divide et impera, a loro parere, di stampo statunitense considerato, e a ragione, fatale per quella sorta di propositi.
Ed è ciò che Cina e India temono maggiormente. Putin è stato avvisato e redarguito; Erdogan ne è pienamente consapevole ma, sul tema e come sempre, risulta evanescente a parole ma risoluto nei fatti. La Grand Strategy del XXI secolo, con le sfide, le ambizioni ed i rischi della SCO per i suoi potenti soggetti economici, è stata tracciata. La palla ora ai suoi avversari.
[1]http://eng.sectsco.org [2]https://www.silkroadbriefing.com/news/2022/09/18/uzbekistan-signs-us15-billion-worth-of-agreements-with-china-at-sco-summit/ [3]https://jamestown.org/program/siberian-regionalism-a-growing-threat-to-moscow/ [4]https://www.bloomberg.com/news/articles/2022-09-17/turkey-seeks-china-led-bloc-membership-in-threat-to-nato-allies [5]https://www.laportadivetro.org/il-volto-prismatico-di-aleksandr-dugin/ [6]Great Britain Naval intelligence Division, A Manual of the Turanians and Pan-Turanianism, London 2017.
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