Il Giorno della Memoria: la nostra forza per reagire alle atrocità del mondo
Il 27 gennaio del 1945, superati i cancelli del gigantesco campo di sterminio di Auschwitz, in un luogo che i polacchi chiamano Oświęcim, l'inimmaginabile divenne realtà davanti agli occhi dell'Armata Rossa e del Mondo. Ottant'anni dopo si celebra, a venticinque anni dalla sua istituzione in Italia, il Giorno della Memoria, un giorno decisamente diverso dagli altri, riconosciuto dalle Nazioni Unite, per ricordare la Shoah, il genocidio di donne e uomini di origine ebraica, persone considerate - in una lotta per la sopravvivenza, nella visione delirante di Hitler - un pericolo per la "razza ariana". L'ideologia nazista, sostenuta da altri complici criminali, tra cui il regime fascista, prefigurava l'eliminazione sistematica di tutti gli Untermenschen, i sub-umani: le popolazioni dell'est, i popoli romanì, i malati psichici. L'Olocausto prese forma da questa follia collettiva che portò alla morte sei milioni di ebrei, uno su sei era un bambino.
Oggi, però, e in questo condividiamo le parole profonde di Anna Foa, il Giorno della Memoria non si può restringere alla commemorazione dei morti, ma deve tradursi in "un monito per il futuro", perché "non deve ridursi al ricordo di ciò che è stato: deve aiutarci a impedire che simili tragedie si ripetano”. In un sforzo collettivo, aggiungiamo, per costruire una barriera contro i nuovi e violenti conati di antisemitismo che fanno anche leva su quanto è accaduto e continua ad accadere a Gaza, sulle sofferenze inferte al popolo palestinese, che sarebbe tuttavia miope e ipocrita ricondurre unicamente all'eccidio del 7 ottobre. Ma guai, ed è un monito in questo caso altrettanto fermo per il presente, ad associare le scelte del governo israeliano di Netanyahu all'intera società civile di Israele, guai a puntare il dito sui cittadini di Israele per poter coltivare in libertà il perverso desiderio di colpire "l'ebreo", il diverso.
Le responsabilità di Netanyahu, come quelle di Hamas, il progressivo deterioramento dei rapporti tra gli Stato di Israele e i palestinesi, pesano anche sull'Occidente e sono soltanto l'ultimo degli effetti della superficialità con la quale, dopo l'11 Settembre 2001, si è rifiutato di comprendere le cause del terrorismo islamico, pur di dispiegare la propria forza militare per puro calcolo economico e dare vita a un nuovo ordine mondiale, destabilizzando l'Oriente e l'Africa rivierasca e centrale. Adesso ne paghiamo i guasti. E li paghiamo quotidianamente con il peggiore senso di insicurezza che il mondo vive dalla fine della Seconda guerra mondiale e con la perdita della sensibilità verso le atrocità collettive e individuale che oggi scorrono sotto i nostri occhi velati dall'impotenza, che rivendichiamo con orgoglio proprio dalla data simbolo del 27 gennaio 1945.
Fino a ieri eravamo convinti che avremmo avuto voce in capitolo per ergerci democraticamente tutti insieme nel respingere la guerra come risoluzione dei conflitti. Oggi avvertiamo che non è più così. Ma non sappiamo come siamo caduti in questo incubo. Ed è un tormento che ci perseguita e che rischia di annullare la volontà di reagire a ciò che ci viene presentato come ineluttabile.
A maggior ragione è necessario ritornare al confronto, l'unico modo per ritrovarci sulla sponda dell'incontro autentico su quanto accade nel presente, come su quanto è accaduto nel passato, come per l'Olocausto. Né si deve temere che il ricordo si possa affievolire con la scomparsa dei testimoni diretti. In proposito, diversamente da Liliana Segre, comprensibilmente preoccupata che la Shoah possa diventare "solo una riga nei libri di storia", condividiamo quanto affermato ancora da Anna Foa: "Sta a noi fare in modo che ciò non accada". Se poi quella riga è anche il titolo del libro che ci accompagna nella vita, il coraggio e la forza per fermare e respingere le atrocità non ci mancheranno mai.
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