I progetti della volpe Erdogan sul destino della martoriata Siria
di Stefano Marengo
Le piazze gremite di siriani in festa per la caduta di Assad hanno un che di commovente, oltre che di liberatorio. Dopo tredici anni di distruzione quotidiana – un’epoca interminabile che ha visto la Siria diventare il campo di battaglia di un ferocissimo scontro di potenza tra tutti i principali attori mondiali e regionali – una svolta così significativa, e per giunta inattesa, non può che suscitare entusiasmo e ravvivare la speranza in un futuro di pace, libertà e dignità riconquistata. Chiunque in questi interminabili anni abbia assistito al martirio della nazione siriana non può che far propria la medesima speranza. Al di là degli auspici, l’imprevedibilità dell’azione militare dei ribelli e la rapidità della caduta di Assad rendono praticamente impossibile svolgere analisi esaustive, per non dire attendibili, della situazione sul campo e delle prospettive politiche che possono aprirsi per la Siria. Non ci sono certezze e le variabili in gioco sono davvero troppe e troppo confuse per azzardare una previsione. È, questa, una premessa indispensabile per discutere con responsabilità, evitando i giudizi troppo netti a cui ci hanno ormai abituati i media e i governi occidentali, ossessionati, per l'ennesima volta, dall’affermare le loro priorità ideologiche e per questo privi di quel senso di complessità con cui si dovrebbe approcciare certi temi.
Oggi come oggi, l’unica cosa che si può fare è mettere insieme le informazioni che abbiamo e provare a farsi un’idea dei decorsi possibili del dopo Assad. L’analisi, inoltre, deve tenere conto sia delle strategie geopolitiche dei governi coinvolti, sia degli obiettivi delle milizie e della base popolare che stanno conducendo o supportando la lotta armata. Le due cose, infatti, non collimano necessariamente.
Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna sgomberare il campo da un’incomprensione di fondo. Abituati come siamo a una visione manichea dei rapporti internazionali – un pregiudizio alimentato dagli USA almeno a partire dal presidente Ronald Reagan (1980-1988), con la contrapposizione tra terra della libertà (ovviamente l’Occidente) e “Impero del male” (di volta in volta chi all’Occidente di contrappone) – fatichiamo a capire che da tempo, in Medio Oriente, gli “schieramenti” in campo non sono due, ma almeno tre, e per giunta a geometrie variabili.
Il primo è naturalmente quello riconducibile agli Stati Uniti e di cui fanno parte, da un lato, Israele e, dall’altro, per quanto sempre più sfumatamente, l’Arabia Saudita, oltre che veri e propri stati satelliti come la Giordania e l’Egitto. Il secondo “blocco” è quello che vede come capofila l’Iran, alleato della Russa e chiave di volta della cosiddetta “mezzaluna sciita”, che comprende formazioni non statali e relativamente autonome come Ansar Allah nello Yemen (composto di sciiti-zayditi), le milizie irachene e Hezbollah in Libano, alle quali si aggiungeva, fino alla scorsa settimana, la Siria dello sciita-alauita Assad.
Il terzo schieramento è forse meno riconoscibile, ma è anche quello che qui maggiormente ci interessa, vale a dire il “blocco” che fa capo alla Turchia di Erdogan, il quale a livello internazionale persegue una doppia strategia: da una parte, l’affermazione in ottica panturanica[1] dell’egemonia di Ankara nei confronti dei popoli turchici tra il Caucaso e l’Asia Centrale (dall’Azerbaigian al Kazakistan); dall’altra, l’affermazione di una analoga egemonia sul territorio mediorientale, questa volta in ottica neo-ottomana e utilizzando l’Islam sunnita come testa di ponte ideologica volta a creare consenso nelle popolazioni arabe.
Soprattutto per quanto concerne lo scenario mediorientale, la posizione turca risulta spesso non immediatamente identificabile, e questo perché essa è emersa non solo e non tanto come alternativa netta agli altri due schieramenti, ma adottando nei loro confronti un approccio di fondamentale ambiguità strategica. La Turchia, ad esempio, con il suo potente esercito, è tra i principali membri della Nato, quindi grande alleata degli USA, e tuttavia intrattiene strettissimi rapporti con paesi come il Qatar, che con l’Occidente ha relazioni quantomeno problematiche; analogamente, l’Iran è senza dubbio tra i principali nemici di Ankara, e tuttavia quest’ultima ha approfondito sempre di più i legami con la Russia, che è invece il principale sponsor di Teheran, ma anche il nemico numero uno degli Stati Uniti.
Queste premesse sono fondamentali per inquadrare l’iniziativa dei ribelli in Siria, sostenuta proprio dalla Turchia. I ribelli, infatti, hanno mosso dal nord della Siria, ossia dalle zone sotto il controllo di Ankara, o direttamente dal territorio turco, e dalla Turchia hanno sicuramente ricevuto sostegno militare in termini di mezzi, armamenti e munizioni. È difficile, invece, stabilire quanto USA e Israele fossero al corrente delle intenzioni di Erdogan.
È invece sicuro che a uscire sconfitto da questa battaglia è l’Iran, che con Assad perde un alleato prezioso per varie ragioni, innanzitutto per il collegamento che riusciva a garantire con il Libano. Per Teheran non si tratta comunque di una sconfitta definitiva. Non è escluso, anzi, che il governo iraniano consoliderà ulteriormente, a titolo quasi compensativo, l’intesa con la Russia, la quale potrebbe aver scelto di sacrificare un alleato storico come Assad in cambio di un deciso sostegno politico turco nella partita ucraina, che ormai sembra volgere al termine, almeno dal punto di vista militare, con la sconfitta di Kiev.
La situazione, come si vede, è piuttosto ingarbugliata ed è al momento improbabile che gli stessi attori in gioco la padroneggino del tutto. Per comprenderne meglio il decorso occorrerà capire i nuovi equilibri che emergeranno nella regione nei prossimi mesi. L’unica cosa certa, in questa fase, sono i nomi dei vincitori, ossia la Turchia e i ribelli siriani. È a questo punto, però, che occorre chiedersi quali siano gli obiettivi che proprio i ribelli intendono perseguire e in che misura siano conformi alle intenzioni di Erdogan.
Del presidente turco ormai tutti conoscono le doti di funambolo politico. A esse si aggiunge però anche un cinismo spietato. A testimoniarlo c’è l’atteggiamento che la Turchia tiene da oltre un anno in merito al genocidio di Gaza. Da una parte, infatti, Erdogan si è spesso presentato come il più agguerrito difensore dei palestinesi, e non sono mancati interventi di fuoco contro il governo israeliano; dall’altra, all’atto pratico, egli non ha mai interrotto i rapporti commerciali con Tel Aviv, anzi ha continuato a garantire che il petrolio e il gas azero continuassero ad affluire verso Israele attraverso il territorio turco. I palestinesi, evidentemente, non sono che una pedina tattica che la Turchia impiega esclusivamente per il proprio tornaconto strategico, secondo un copione purtroppo noto e comune a molti.
Lo stesso discorso vale adesso per la Siria. Di nuovo, non bisogna farsi incantare dalle parole di Erdogan, secondo il quale i siriani hanno il diritto di scegliersi liberamente il proprio destino. In realtà è del tutto evidente che egli vorrà esercitare il massimo del controllo possibile sul paese proprio per garantirsi una posizione di vantaggio nella lotta per il dominio regionale. Se questa logica dovesse prevalere, la caduta di Assad non sarà stata per la Siria un punto di svolta verso la pace e la libertà, ma l’ennesima tappa di un martirio che non vede la fine, ma soltanto il periodico sopraggiungere di nuovi aguzzini.
È con questo enorme problema che adesso dovranno misurarsi gli artefici della caduta di Assad. Qui tuttavia non si può più rimandare la domanda: chi sono davvero questi ribelli? Come sono composte le loro milizie? Nella situazione attuale, per mancanza di informazioni e per la confusione degli eventi, è pressoché impossibile dare delle risposte precise. Ciò che sappiamo, però, è che quello dei ribelli non è un mondo omogeneo, ma piuttosto plurale e variegato. Semplificando al massimo, si contano senz’altro tra di loro un certo numero di jihadisti, reduci di al Qaida e dell’Isis che già negli anni passati erano stati impiegati come mercenari al soldo della Turchia per effettuare incursioni e creare avamposti nel nord della Siria, soprattutto nelle aree controllate dai kurdi, che Ankara considera da sempre suoi nemici irriducibili.
Accanto a loro ci sono però anche numerosi combattenti siriani che non sono mercenari né jihadisti, ma agiscono secondo il più profondo spirito partigiano di liberazione nazionale: si tratta di una porzione significativa dei giovani le cui famiglie, dal 2011 in poi, sono state costrette ad abbandonare il paese e da allora vivono come rifugiate nel sudest della Turchia.
Tra questi due gruppi ne esiste poi un terzo di “ex jihadisti” – una categoria di nuovo conio giornalistico che va maneggiata con estrema attenzione: si tratterebbe, in breve, di combattenti che in passato hanno militato in al Qaida, nell’Isis o in organizzazioni simili ma che, nel frattempo, hanno abbandonato il jihadismo per aderire agli obiettivi di liberazione nazionale propri dei partigiani siriani. A questo riguardo vale la pena osservare un dettaglio tragicomico, ossia come stampa e governi occidentali, nell’ansia di attribuirsi qualche merito per la caduta di Assad, si siano affrettati a rietichettare come irreprensibili combattenti per la libertà individui che fino all’altro ieri collocavano in cima alle liste dei terroristi più ricercati e pericolosi del mondo. Ormai sembra quasi che la perdita di credibilità dell’Occidente non sia un effetto collaterale di azioni improvvide, ma un programma politico deliberatamente perseguito.
Tornando al punto, di fronte al contesto siriano si possono formulare soltanto frasi al condizionale, e per giunta anche piuttosto generiche. Mi sembra infatti chiaro che la Siria potrà finalmente uscire dalla sua lunga notte soltanto se a prevalere saranno le forze autenticamente partigiane. Solo loro, forti di un ampio consenso popolare, potranno restituire al paese la sua indipendenza e la sua dignità calpestata. Se a prevalere sarà invece la componente jihadista – quella componente che non solo ha dato prova di estrema brutalità e fanatismo, ma si è spesso venduta al migliore offerente tra le potenze in campo – la Siria rimarrà una pedina alla mercè di forze esterne – oggi la Turchia di Erdogan, – in ogni momento sacrificabile sull’altare della logica di potenza.
Il decorso della vicenda siriana, d’altronde, non è un tema che riguarda la sola Siria, ma avrà effetti dirompenti sull’intera regione. Pensiamo, su tutte, alla questione palestinese. L’eventuale consolidamento delle mire turche in Siria finirebbe per derubricare la tragedia della Palestina, come il dramma dello stesso popolo siriano, a nota a piè di pagina di un puro scontro egemonico che non tiene alcun conto della sorte degli oppressi. L’affermazione dei partigiani siriani, invece, sarebbe un’autentica vittoria proprio degli oppressi e ridarebbe slancio concreto alle lotte di liberazione nazionali e anticoloniali in tutto il Medio Oriente. È del tutto superfluo precisare in quale direzione dovrebbe orientarsi la nostra bussola morale.
Note
[1] Movimento sviluppatosi tra la fine del 19° e l’inizio del 20° sec., mirante a valorizzare l’affinità culturale e a promuovere la solidarietà politica fra le diverse popolazioni di lingua turca
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