Gli ultimi giorni del 1944 e la grande eredità della libertà
Aggiornamento: 4 giorni fa
L'articolo di Marco Travaglini, inviato alcuni giorni fa, quindi in tempi non sospetti, come si suole dire, è dedicato alla copertina del quotidiano Libero, che nell'ultimo giorno dell'anno ha pubblicato in prima pagina un busto di Mussolini con l'eloquente titolo "E' lui l'uomo dell'anno" e, al seguito, un editoriale firmato dal suo direttore Mario Sechi.
Opinione personale quanto legittima quella della direzione del quotidiano: ognuno è libero di manifestare il proprio pensiero. Soprattutto, aggiungiamo e non per dovere di circostanza, se è coerente con il suo stile, la sua visione del mondo e della società, in particolare quella italiana, cui il governo di destra-centro dà quotidianamente, alla stessa stregua dei titoli di Libero, il calco della sua interpretazione del concetto di democrazia: ultima, la straordinaria esibizione del rispetto che si nutre per il Parlamento con l'approvazione della Legge di Bilancio. Di conseguenza, non può che essere altrettanto coerente accogliere degnamente, soprattutto nel campo dell'informazione, l'onestà intellettuale, anziché l'ipocrisia. E lo si scrive con profonda convinzione, memori di quando la libertà di pensiero e di espressione erano facoltative e a discrezione, ma con un distinguo: non con pari ammirazione, almeno in questo caso.
Infatti, rimane sempre il dubbio sull'opportunità di scelte che riaprono ferite antiche e dolori mai sopiti per il desiderio di iperbole e la voglia di stupire, di dare lezioni di politica sostenendo l'esatto contrario, proprio attorno a una figura, quel "Lui", grazie alla quale l'umanità, e non soltanto il nostro Paese, è stato messo a contatto di cose orribili, dalla promulgazione di leggi liberticide e razziali all'uso dei Tribunali speciali come "clava", per rimanere nel perimetro dell'editoriale, su dissidenti e antifascisti, condannati a secoli di carcere e al confino, prima della guerra di aggressione, dopo gli esercizi muscolari in Etiopia e Spagna, datata 10 giugno 1940. Davvero un probante esempio di grande sensibilità.
La Porta di Vetro
Faceva freddo in quella stalla abbandonata. Dai muri tirati su a secco entrava un’aria gelida, sibilata dal vento che quella notte turbinava neve. Attorno a quel tavolo di fortuna, combinato da due vecchie assi poggiate su malfermi cavalletti di legno, io, Giorgio e Renato parlavamo di quale futuro ci attendeva. La cera della candela era rappresa in pallide lacrime e le parole scorrevano veloci, di bocca in bocca. Quando sarebbe finito l’incubo della guerra, l’occupazione dei tedeschi e l’arroganza dei fascisti della repubblica sociale con quei ghigni sinistri e i simboli delle teste da morto? L’Italia sarebbe tornata come prima del fascismo o sarebbe cambiata davvero? Certo, volevamo la libertà ma non si combatteva solo per ottenere quella. C’era di più, molto di più.
“Il nostro obiettivo riguarda insieme libertà e democrazia”, diceva Giorgio. “Non è possibile che le cose rimangano come al tempo dello Statuto Albertino. Non basta che ci sia un sovrano che conceda di sua iniziativa, bontà sua, i diritti al popolo. Anzi. Non va nemmeno bene che ci sia un Re, la monarchia, i Savoia a decidere e comandare. Quelli sono scappati all’8 settembre lasciandosi alle spalle un paese dilaniato, distrutto, occupato. Prima hanno aperto le porte al Duce, poi all’avventura della guerra e ora dovremmo accoglierli ancora, perdonando tutto? Nemmeno per idea!”.
Accompagnava le parole picchiando pugni sul tavolaccio, facendo tremare la candela che prontamente dovevo prendere al volo. Eravamo d’accordo tutti e tre: non avevamo preso le armi per cacciare i fascisti e i tedeschi per tornare ad essere sudditi. Insieme alla libertà volevamo giustizia, un lavoro da svolgere con dignità. Volevamo la fine di quei tormenti che ci avevano avvelenato la vita. Era la vigilia di Natale, il 24 dicembre 1944. Dopo la caduta della Repubblica dell’Ossola e il proclama di Alexander che ci chiedeva di cessare le azioni di guerriglia, in questo gelido e duro inverno ci eravamo riorganizzati ma bisognava stare attenti. C’erano giorni in cui venivamo avvertiti che in giro c’erano tedeschi e fascisti che ci davano la caccia e non era il caso di uscire allo scoperto, altri in cui si preparava o si effettuava un agguato o un’azione particolare. Avevamo deciso di non stare ad aspettare che gli alleati riprendessero a risalire l’Italia.
Dovevamo fare la nostra parte e l’avremmo fatta ad ogni costo. Nei periodi di inattività eravamo impegnati anche in grandi discussioni, in cui si parlava del futuro, di come lo si immaginava. L’idea del futuro, anche fosse solo per istinto, era associata al desiderio di qualche cosa di completamente diverso che chiamavamo genericamente democrazia, cioè un Paese senza dittatura, senza imposizioni, senza violenza. Sono passati tantissimi anni e a volte penso a quella sera e alle tante sere passate a discutere, alle azioni e ai rischi che corremmo, ai compagni che persero la vita e vedendo quest'Italia piatta, meschina, ignorante mi scopro a pensare chi ce l’avesse fatto fare. Poi, superato lo scoramento, mi ritornano in mente le parole di Renato quando diceva che non bisognava illudersi, che le cose sarebbero sì cambiate ma che non c’era conquista che sarebbe stata ottenuta una volta per tutte, che per noi che volevamo cambiare la società, che aspiravamo a cambiare il mondo non ci sarebbe mai stato congedo.
Quante volte ci siamo ritrovarti da anziani. Noi, i sopravvissuti con i capelli bianchi. Noi che avevamo fatto saltare i ponti e con queste mani tremanti un giorno avevamo lanciato bombe a mano e stretto forte le armi. Con queste signore dallo sguardo mite, diventate nonne e anche bisnonne, che a quei tempi nascosero pistole, portarono messaggi, ospitarono e nutrirono partigiani, fecero con coraggio la loro parte. Oggi siamo rimasti in pochi e facciamo fatica a camminare, sorretti da un bastone o una stampella. Attraversiamo lentamente le vie che un tempo ci videro muoverci con rapidità, colpendo e fuggendo. Vecchi, malandati, spesso soli e dimenticati. Può darsi che si susciti tenerezza o compatimento ma a quel tempo sbaragliammo interi battaglioni, rischiammo la vita, ci battemmo per garantire quella libertà della quale oggi tanti ne fanno cattivo uso, abusandone, senza immaginare quanto ci sia costata perché non ne sono mai stati privati e non hanno dovuto battersi per riconquistarla.
Non c’è retorica. Non serve indulgere in nostalgie. Abbiamo la consapevolezza di aver fatto ciò che era giusto e che tutto quanto è accaduto non deve essere dimenticato. Quei semi di giustizia e libertà è augurabile che non inaridiscano mai. Siamo gli ultimi testimoni e tra poco non ci sarà più nessuno di noi. Il nostro regalo per tutti i giorni a venire è questa eredità. Fatene un buon uso e non scordatevi quanto è costata.
Marco Travaglini
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