Giulia guardata da GIULIA, il "caso Cecchettin" al microscopio
di Emmanuela Banfo
Il "caso Cecchettin" ha segnato una svolta nell’informazione sul femminicidio? Sicuramente ha alimentato un dibattito pubblico che ha coinvolto non solo la cronaca delle grandi testate giornalistiche nazionali, ma anche quella locale, a dimostrazione del suo impatto capillare nella società civile. A confermarlo è la seconda edizione della ricerca di Ora, l’Osservatorio Regionale Antidiscriminazioni che, partendo da un’analisi scientificamente condotta dal Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell’Università di Torino e dal Cirsde (Centro interdisciplinare di ricerche e studi delle donne e di genere) su 6.346 articoli tra notizie di carta stampata, online e servizi televisivi (338 i servizi della TGR Piemonte, 99 sui temi della disabilità e 239 sul genere), offre uno spaccato del giornalismo locale che nulla ha di localistico.
400 "giornaliste unite libere autonome"
La presenza, nell’ideazione e nell’esecuzione del progetto, di GIULIA (Giornaliste Unite Libere Autonome) sta a significare l’importanza – spiega la sua presidente Serena Bersani, del "ruolo che i media svolgono nella costruzione del comune sentire, dello ‘spirito del tempo’ e quanto possono influenzare i pensieri e indirizzare i comportamenti in chiave più o meno etica". E non è affatto una diminutio che l’approfondimento si soffermi proprio su quella dimensione locale "perché le notizie di prossimità sono anche quelle che arrivano prima ai lettori e ai telespettatori e definiscono il racconto".
Fondata nel 2011 GIULIA giornaliste, presente in tutta Italia con circa quattrocento associate a cui s’affianca una vasta rete di soggetti simpatizzanti istituzionali e non, è riconosciuta come ente formatore del Terzo Settore nella convinzione, ampiamente condivisa, che la rappresentazione mediatica ha un ruolo, sempre più incisivo, capace di amplificare o silenziare voci e storie, di accendere o spegnere i riflettori su intere comunità, ma anche su interi Paesi e ahimè su guerre. L’indagine di Ora e GIULIA, nel sottolineare che la tragedia di Giulia Cecchettin ha occupato più a lungo e diffusamente le prime pagine, i titoli di testa di grandi e piccoli media assieme alle Olimpiadi e alle elezioni Europee, in questo 2024, ci induce a porci alcune domande. Prima di tutte se sia davvero sintomo di un cambiamento nell’informazione sul femminicidio e di una cresciuta sensibilità sul tema.
Oltre il muro della cronaca spicciola
Per quale motivo quello di Giulia Cecchettin è diventato un "caso" che si è decisamente differenziato dagli altri 98, tante quante sono le donne uccise in Italia fino al 25 novembre scorso? Chi opera nel mondo del giornalismo sa bene che ci sono alcuni ingredienti tali da rendere la notizia di cronaca più impattante. Il suo potenziale indice di stimolatore d’emotività e, dunque, di reattività empatica decide la sua collocazione in pagina e la sua permanenza nelle top news. Ma, se stiamo a vedere, la storia in sé non ha nulla di specifico rispetto a tante altre, purtroppo drammaticamente fotocopia. Questa volta non è stato il giornalismo creatore di contenuto, ma ricettore di una presa in carico da parte della sorella e del padre della ragazza. Si potrebbe davvero inserire tra i case study dei corsi di formazione giornalistica.
Elena e Gino Cecchettin fanno parte di quella cittadinanza attiva, consapevole, capace di andare oltre alla contingenza di una vicenda, per loro devastante, fonte di una sofferenza indicibile, per risignificarla alla luce di una storia non più soltanto personale. Il giornalista costretto a uscire dalla cronaca spicciola, non ha potuto immortalare il pianto del solito padre disperato, piangente, il familiare arrabbiato che chiede giustizia nel senso, se potesse, del patibolo riparatore di una sete di vendetta che alberga nascosta nel proprio intimo. Il/la giornalista non ha potuto a lungo soffermarsi sul dettaglio raccapricciante perché loro, Elena e Gino Cecchettin, erano pronti a rintuzzare che il problema non stava lì, che non valeva la pena dare in pasto motivi d’odio alle tricoteuses dei nostri tempi.
Nessun cedimento alla "vittimizzazione"
Il caso è diventato caso per quel padre e quella sorella che hanno sottratto la ragazza, l’ennesima uccisa dall’ex, alla fredda statistica che alla fine non fa che produrre assuefazione e indifferenza. Il giornalismo è stato preso in contropiede e stimolato a svolgere il ruolo che sempre dovrebbe svolgere: non solo e non tanto fotografia di fatti, ma lente d’ingrandimento che fa da specchio a una comunità intera. Questo sono riusciti Elena e Gino Cecchettin che non hanno ceduto a quella, come denuncia ancora una volta la stessa ricerca di Ora-GIULIA, che va sotto il termine di "vittimizzazione". Giulia Cecchettin, grazie solo ai suoi familiari, non è stata mai dipinta come vittima del mostro, ma, ribaltando questa dinamica così ampiamente rappresentata dai media, piuttosto come sopravvissuta lei stessa voce parlante attraverso la sorella che interpella una società intera, le viscere della sua cultura, quel che c’è di marcio nelle sue fondamenta.
E attraverso la voce paterna non ha ceduto neppure alla criminalizzazione tout court che fa in fretta a pulirsi la coscienza e a voltare pagina. Quanto è stato educativo per tutti/e vedere il padre di Giulia farsi carico del dolore altrui, dell’altro padre sul quale si stende l’ombra di una colpa riflessa, senza neppure avere il contrappeso, altrettanto doloroso e tuttavia compensatorio, della bella, solare figlia uccisa di cui andar fiero e donare al mondo? Quanto ci ha insegnato questo padre esemplare?
Modificare i meccanismi interni dell'informazione
Tuttavia s’impongono alcune riflessioni. Sul giornalismo innanzitutto. Troppo spesso i processi si fanno in televisione. Troppo spesso i media sono il luogo dove elaborare i lutti, dove trovano sfogo i disperati, dove ottenere la giustizia di cui si ritiene i tribunali non siano più in grado di dare. Sulla storia Cecchettin e sull’ergastolo a Turetta non entriamo nel merito. Solo le motivazioni della sentenza ci diranno come e perché non gli siano stati addebitati la crudeltà e lo stalking. Se davvero abbiamo fiducia nella magistratura, dobbiamo rispettare i suoi pronunciamenti e valutarli soltanto dopo che ce ne saranno fornite le spiegazioni. La nostra disamina è a monte.
E’ rassicurante che ci siano cittadini e cittadine che cambiano il giornalismo virandolo su nuove logiche, nuove letture della realtà. Ma sono destinati ad essere sporadici tentativi destinati a esaurirsi se non è la macchina mediatica a modificare i suoi meccanismi interni. Per quanti sforzi possa aver compiuto Gino Cecchettin per non vittimizzare la figlia, per non crocifiggere i genitori del Turetta, per farsi parte in causa della stessa criminalità del giovane Filippo che di anni ne ha solo 23 e che, se crediamo davvero ai discorsi sul recupero, sulla rieducazione, ci inquieta pensare il resto della sua vita buttato via in una cella, ecco per quanti siano stati gli sforzi di questo padre, le cronache del processo non gli hanno reso giustizia.
Di nuovo i primi piani su quel viso da bravo ragazzo, viso senza espressione, senza emozione. E allora fiumi d’inchiostro per dedurre che allora non c’è pentimento, non c’è rimorso nell’omicida. Come se ciò potesse leggersi da un volto, da una lacrima o da un ghigno. Come se ciò potesse essere penalmente rilevante. Una superficialità fisiognomica che ancora una volta vuole soltanto indurre a smuovere le emozioni e non le coscienze come Elena e Ginio Cecchettin vorrebbero.
Il patriarcato sul banco degli accusati
Altra considerazione, e qui c’è materia di riflessione per tutte le parti in causa in questo gioco a specchi che è la ricostruzione mediatica di un evento: gli aspetti positivi e i rischi della simbolizzazione. Nel momento in cui un fatto, una persona, diventano simbolo – e non lo sono di per sé, ma sono sempre altri che lo trasformano in questo senso – acquistano una forza che va ben oltre la contingenza di quel fatto, di quella persona. Nel momento in cui a Giulia Cecchettin è stato affiancata l’accusa, politica, sociale, culturale, al patriarcato, l’intera comunità si è sentita chiamata sul banco degli imputati. E questo è bene, salutare. Forse che la stessa cosa non sarebbe stata pertinente per le altre donne uccise in analogo modo da mariti, fidanzati o ex? Certo che sì, ma ciò non è avvenuto perché i familiari sono restati nella logica vittimistica della loro specifica vicenda, la loro storia non è diventata storia di tutti anche se ne avevano tutte le potenzialità.
Togliere, però, una storia o una persona dalla sua specificità per rappresentarla iconicamente arricchisce e impoverisce allo stesso tempo. Arricchisce poiché diventa portatrice di un messaggio, di un valore che supera il tempo e si proietta nel futuro, dall’altro rischia una cristallizzazione concettuale che di quella storia o di quella persona resterà soltanto un ricordo sbiadito. Se ne potrà fare un uso improprio, trasformando, nel nostro caso, la cara Giulia in una bandiera che, però, non sarà lei a brandire, ma altri che potrebbero anche impugnarla come un’arma e lei non ci sarà ad esprimere la sua opinione, ad affermare o a negare. Non sarà più libera come voleva essere, ma sarà custodita sotto una teca, sotto protezione.
I primi segnali già s’intravedono. Le minacce ai genitori di Filippo Turetta, il suo avvocato sotto scorta. Quello che doveva essere uno stimolo al ripensamento di una società del potere basato sulla violenza, sulla sopraffazione del più forte, sulla bramosia del possesso, è gettato alle ortiche da coloro, troppi, che alimentano e si alimentano di odio, di conflitto, di contrapposizioni. E il giornalismo che dovrebbe non essere megafono o amplificatore, ma strumento di razionalizzazione inteso come problematizzazione, facilitatore di dialettica, di azioni virtuose alla ricerca di nuovi equilibri dove al centro è il rispetto della vita propria e altrui, della persona, come una cinepresa riprende un film già visto.
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