Giulia Cecchettin, spingiamoci oltre l’emotività che evapora
di Amelia Andreasi Bassi
Oggi, 25 novembre, è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E' una data simbolo scelta nel dicembre del 1999 dall'Assemblea generale dell'Onu per ricordare il coraggio delle sorelle dominicane Patria, Maria Teresa e Minerva Mirabal, soprannominate “mariposas”, farfalle. Il loro volo fu spezzato il 25 novembre del 1960 dai sicari del dittatore Rafael Trujilo contro cui lottavano per portare la democrazia nel loro paese. Il sacrificio delle mariposas non fu vano. Il generale Trujilo fu ucciso nel maggio del 1961 e la sua morte pose fine a una dittatura trentennale in cui il dittatore e la sua numerosa famiglia aveva accumulato un ingente patrimonio, dirottato su banca estere, sottraendolo al bene comune.
In Italia questo 25 novembre è una giornata particolare perché i vissuti sono di autentico dolore per l'ennesima e recente uccisione di una donna, giovane, intelligente e bella: Giulia. E il suo nome è risuonato come un tam-tam di forte contrasto alla violenza anche ieri nelle piazze dell'Italia del Nord, teatro di manifestazioni sindacali per lo sciopero generale. "Facciamo rumore" è stato l'urlo collettivo e solidale di una presa di coscienza che rigetta la violenza e vuole fare spazio a un rispetto di genere che passa dai rapporti famigliari ai luoghi di lavoro, con un tragitto che va nei due sensi in cui l'uomo è sempre accanto alla donna, come sottolinea Amelia Andreasi Bassi nell'articolo.
L’ondata emotiva che ha invaso il Paese per l’uccisione della giovane Giulia Cecchettin sta lentamente defluendo lasciando dietro di sé, proprio come succede con le conchiglie sul bagnasciuga dopo una mareggiata, nuove parole, nuove forme di lotta, nuovi strumenti legislativi e persino un granello di civiltà nel dialogo istituzionale.
Di fronte a questa 103esima uccisione del 2023 - l'ultima, il 20 novembre, è quella di Rita Talamelli avvenuta a Fano, nelle Marche, prima, in questo novembre di sangue, quelle di Francesca Romeo, di Patrizia Vella Lombardo, Virginia Petricciuolo, Michele Faiers Dawn - sembra essere stato vano tanto l’impegno pluridecennale delle centinaia di associazioni femminili, e sebbene con minore longevità, anche di quelle maschili, teso alla promozione della parità tra i generi, quanto di quello di migliaia di organizzazioni educative pubbliche, private e del no profit, come degli insegnanti e di un’infinità di famiglie attente al rispetto reciproco, di reti territoriali di soggetti del terzo settore cooperanti in progetti mirati al buon vivere comune, di commissioni locali per le Pari Opportunità, di norme e codici vigenti e di tanto altro ancora.
Sono giorni di sconcerto e di rabbia ma anche di profonda riflessione collettiva e individuale. Sui social, sui giornali, in famiglia, con gli amici e tra sé e sé.
Una tragedia questa di Vigonovo che pare aver risvegliato, più di altre, dalla pigra rassegnazione verso quella cultura che vede il corpo femminile offerto come promessa di conquista e veicolo di consumo, esposto ad ogni tipo di immaginario improntato alla sopraffazione e al possesso.
Molte sono le voci che stanno dicendo basta e tra loro sono molte anche quelle maschili, la maggioranza delle quali cerca di far emergere l’alterità, spesso indica percorsi di uscita, sempre sottolineano il volerci essere per cambiare.
Questa comunione di intenti non è certo una novità perché il percorso di liberazione e di emancipazione che le donne hanno costruito dalla fine dell’800 in qua è stato possibile perché molti uomini sono stati al loro fianco. Quel meraviglioso quadro che è il “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo ben rappresenta la condizione sine qua non di ogni conquista, che si tratti di diritti politici, civili e sociali o meglio ancora di approdi culturali.
Ogni femminicidio ha la propria storia, i protagonisti hanno contesti culturali e sociali di appartenenza diversi, profili psicologici propri, cause scatenanti specifiche per ognuno e vanno visti e considerati nella loro singolarità.
Eppure, in questa lunga settimana ciò che sembra emergere con chiara evidenza dal pubblico dibattere è la consapevolezza che l’atto violento rappresenti un urlo di paura e impotenza proveniente da un mondo interno, culturale ed emotivo, che lo ha nutrito nel tempo.
Nel tentativo di cercare le responsabilità e le cause da cui far discendere azioni di cambiamento, nelle riflessioni di questi giorni hanno preso maggiore evidenza anche la pluralità di fattori che concorrono a creare le condizioni di tutti i femminicidi financo quello di Giulia Cecchettin: il permanere di un ordine gerarchico patriarcale nell’organizzazione economica e sociale, la mancanza di educazione sessuale nelle scuole, l’accesso precoce e incompetente ai social, l’assenza di un codice etico televisivo, la carenza di servizi a sostegno della genitorialità, la permanenza di stereotipi di genere dannosi e fuorvianti, la nuova sciatteria del dibattito politico, l’analfabetismo sentimentale e il diffondersi di un linguaggio sempre più povero e rozzo; tanto per richiamare quelli principali.
Ma se questo è il quadro nel quale siamo immersi allora alla domanda postaci su queste pagine da Stefano Capello[1] dobbiamo farne seguire anche un’altra rivolta a tutti noi: “dov’è Filippo?”; chi è?
La risposta, come dice bene Capello, non è informativa ma esistenziale e io credo che, ancora una volta, non possa essere singolare perché per averla non può bastare la scuola da sola, come non basta la famiglia o la parrocchia.
Per accompagnare un giovane ad acquisire un buon grado di stima di sé e di sicurezza, a diventare capace di tutelare la propria dignità nel massimo rispetto della libertà altrui, ad imparare a tollerare errori e fallimenti cogliendone le opportunità di apprendimento, insomma per formare persone equilibrate e solide serve una società che voglia, oggi più che mai, funzionare come una comunità educante, competente, con un territorio i cui soggetti organizzati siano in grado di ascoltare e di cooperare ponendo al centro i bisogni delle persone e sapendo costruire politiche mirate a creare legami e contesti attenti e inclusivi.
Non pensiamo che tutto ciò sia utopico, non lo è per il semplice fatto che per nostra fortuna, grazie ai giganti che ci hanno preceduto, sono molte le realtà dove esiste, da nord a sud del Paese, nonostante tutto. Occorre vengano viste, prese a modello da parte di una politica nazionale lungimirante, capace di programmi di lungo respiro, interessata al futuro del Paese e al benessere delle sue molte comunità.
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