"Direttore o Direttrice": non ne facciamo più una guerra di religione
di Giancarlo Rapetti
"Vuole essere chiamata Direttore o Direttrice?” chiese Amadeus a Beatrice Venezi, di recente contestata dagli orchestrali del Teatro Politeama di Palermo). Risposta: “Direttore”, e si scatenò un dibattito ideologico. In realtà il problema è più modesto, anche se interessante e di difficile soluzione linguistica. La lingua italiana è complicata, ha le declinazioni di genere e numero, deve inseguire l’evoluzione della società e lo fa in modo diverso a seconda di chi si esprime. Il sostrato concettuale della risposta di Venezi (naturalmente non so se intenzionale) è all’incirca questo: i termini direttore, sindaco, arbitro, ministro, pur essendo grammaticalmente maschili, sono neutri, indicano una funzione che è la stessa, sia svolta da un uomo, sia svolta da una donna; in più, aggiungo, non declinando il genere, non si avventura nemmeno sullo scivoloso terreno del gender fluid. Quindi l’accusa a Venezi di essere maschilista, retrograda e reazionaria, di non valorizzare le donne, diventa curiosa se si pensa che così dicendo è oggettivamente molto più vicina al pensiero woke di molti suoi detrattori, per i quali invece il woke è una religione. Un bel paradosso, ma non l’unico.
Infatti sembrerebbe una bella soluzione del problema: usiamo il maschile in funzione di neutro, e non parliamone più. Ma, c’è un però: suona bene ministro, sindaco, arbitro, direttore (d’orchestra). Perché si dice invece infermiera, bidella, operaia, e anche direttrice (didattica) o dottoressa (specie quando si tratta di medico), professore o professoressa (di scuola, ma in ogni ordine e grado)? La risposta è semplice: sono declinati al femminile i nomi delle funzioni che registrano una importante presenza femminile da più tempo, e quindi sono stati digeriti nel linguaggio comune. E’ accaduto il contrario per le funzioni in cui la presenza femminile è più recente. Avvocato, ministro, arbitro, notaio.
C’è di più. Siccome questa presenza femminile nelle ultime citate professioni è avvenuta in epoche più recenti e diverse culturalmente, si è prodotta la situazione contraria. Una mia collega di Università, una delle prime donne a diventare notaio titolare, per di più giovanissima, gelò un suo cliente che chiedeva “devo chiamarla signora o signorina” con un perentorio “mi chiami notaio”. E una nota penalista torinese pretendeva di essere chiamata “avvocato”, senza eccezioni.
Apparentemente, le cose si semplificano con le funzioni indicate da un participio presente. Caso più noto: presidente. Di pacifico tuttavia non c’è niente, ci si mettono di mezzo pure gli articoli: Giorgia Meloni ha normato con atto ufficiale che vuol essere chiamata “Il Presidente”. L’Accademia della Crusca, chiamata in causa per una situazione analoga, ha concluso confermando che “presidente “è un participio non declinabile, ma la declinazione di genere può essere realizzata con l’articolo: “il presidente”, oppure la “presidente”. Due buone notizie: la Crusca esclude “presidentessa”, che sarebbe terribile ad orecchie un minimo sensibili; alla Crusca non è ancora arrivato il pensiero woke, quindi pensano che i generi siano due.
Nemmeno coi participi si può stare tranquilli, però. Come la mettiamo con studente e studentessa, nell’uso comune da lungo tempo? Anche studente è un participio presente, ma, ahimè, sostantivato, quindi declinabile. Badante, invece, non è sostantivato, forse perché con il termine si pensa “la badante”, e meno “il badante”.
Il genere unico è acquisito nei gradi militari, e i media di norma si adeguano. Le eccezioni non mancano neanche qui: nel dare notizia della nomina di Lisa Franchetti a “Capo delle Operazioni Navali” USA (ruolo equivalente al nostro “Capo di Stato Maggiore della Marina”), i media in prevalenza l’hanno chiamata “Ammiraglio”; con numerose eccezioni, tuttavia, che si sono avventurate in un “Ammiraglia”, termine con il quale da noi si usa indicare l’auto su cui viaggia, al seguito della corsa, il direttore sportivo di una squadra ciclistica. Prevale comunque l’assenza della declinazione di genere quando si tratta di cose militari: anche Demi Moore è tradotta nel titolo italiano Soldato Jane, dall’originale G.I. Jane.
Eppure, è raro imbattersi in “capitana” o “colonnella”, ma non è raro incontrare “soldatessa”. Insomma, è impossibile trovare una regola generale che valga per tutti i casi e tutte le sensibilità. Sarà l’uso comune, tipico della lingua viva, a far prevalere le diverse formule. D’altra parte, le lingue più evolute (un giudizio di fatto, non di valore) tendono a esser più semplici. In inglese di norma la distinzione di genere non esiste, tranne casi limitati: si ricava dal contesto. Semplificazione estesa anche ai rapporti tra persone. Non esiste il Lei, si dà del tu a tutti. Anzi, si dà del Voi (You), perché il thou dei tempi di Shakespeare è caduto in disuso. A questo proposito, per esempio anche in Italia si sta allargando l’uso del tu, specialmente con gli stranieri (reciprocamente). Non per maggiore confidenza, ma perché maneggiare la terza persona è più complicato. Per inciso, quando il Duce voleva imporre il Voi al posto del Lei, per altro con scarso successo, copiava, con orgoglio italiano, non solo dalla Francia ma anche dalla “perfida Albione”.
Infine, un paio di notizie per i fautori del politicamente corretto, che si sentono in dovere di ripetere ossessivamente “cittadine e cittadini”, “lavoratrici e lavoratori”, “tutte e tutti”, e via duplicando. La prima è che la grammatica italiana prevede che, quando ci si debba riferire contemporaneamente a insiemi di genere diverso, si usi il maschile. E’ un retaggio antico del patriarcato? Può darsi. Oggi è una banale convenzione semplificatrice. La seconda notizia è che l’inventore della formula “Italiane, Italiani” è il già citato Benito Mussolini, che la inseriva tra gli appelli dal balcone di Piazza Venezia dopo i “Combattenti di terra, di mare e dell’aria” e le “Camicie nere della rivoluzione” (s’intende fascista).[1]
Al di là delle reminiscenze storiche, la lingua è fluida e modellata dall’uso, e nel tempo si creerà una prevalenza a cui tendenzialmente adeguarsi. Ci sarà un processo naturale di chiarezza e semplificazione. Per l’intanto, non sarebbe male evitare, almeno in questo campo, l’ennesima guerra di religione o l’attribuzione di etichette ideologiche.
Note
[1] L'incipit della dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 fu la seguente:
"Combattenti di terra, di mare e dell'aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno d'Albania. Ascoltate!"
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