Di condono in condono cresce la diseguaglianza fiscale in Italia
di Anna Paschero
Salvini ha scoperto, un po’ in ritardo, che il concordato biennale preventivo non funziona e sul modo di gestire il “populismo fiscale” dell’attuale governo ha avanzato la sua proposta di un ennesimo condono, il 21 esimo, per la precisione, dell’attuale legislatura. Una misura che consente di rateizzare fino a 120 rate mensili gli avvisi di accertamento notificati dall’Agenzia delle Entrate entro la fine del 2023. Una sorta di nuova rottamazione delle cartelle fiscali.
La misura proposta da Salvini si pone come alternativa allo strumento del concordato, i cui termini per partecipare scadranno il 14 dicembre prossimo, ma è anche rivolta a biasimare pubblicamente l’iniziativa assunta dal collega di governo Leo, di inviare circa 700 mila lettere di invito ad aderire ai possibili interessati scelti tra le partite IVA che hanno dichiarato un reddito d’impresa inferiore ai 15.000 euro.
Tra i due (e all’interno della compagine di cui fanno parte) è nata una querelle sul modo migliore – aggressivo o indulgente? - di portare a casa i soldi necessari a tradurre le promesse elettorali del governo in fatti concreti, ovvero ridurre di due punti percentuali la seconda delle tre aliquote fiscali (dal 35 al 33%) che dovrebbe entrare in vigore con il primo gennaio prossimo.
Aliquota che penalizza maggiormente, per effetto della continua compressione del numero degli scaglioni, bonus per redditi bassi, e taglio del cuneo fiscale i redditi medi, che negli ultimi anni hanno perso un significativo potere d’acquisto, come ha appena certificato il CENSIS (oltre il 7%). Di quanto sopra se ne è accorto anche il governo che sta inutilmente tentando di raschiare il fondo del barile per trovare il miliardo e mezzo in più per pareggiare i conti.
Stessa aliquota per i redditi tra 50mila e 608mila euro...
Secondo il CENSIS il 60,5 per cento degli italiani dichiara di appartenere al ceto medio. I dati certificano che, oggi, sentirsi appartenente al ceto medio è uno status sociale compatibile con disponibilità reddituali diversificate, che possono arrivare anche a importi superiori ai 50.000 euro all’anno. Infatti, la riforma del fisco del governo Meloni pone sullo stesso piano i redditi di 50.000 euro e quelli di oltre 608.000 euro, ovvero dodici volte superiori (ultima classe di reddito superiore a 300.000) a cui appartengono 57.620 individui, tassati con la medesima aliquota fiscale del 43%.
Tenendo conto che i dati appena citati sono tratti dalle statistiche fiscali pubblicate dal Dipartimento delle Entrate del MEF e riferiti alle dichiarazioni ricevute relative all’anno di imposta 2022, e che negli ultimi cinque anni gli individui che si collocano nell’ultima classe di reddito superiore ai 300.000 Euro sono aumentati di oltre il 61 per cento, sarebbe più ragionevole (per le casse dello Stato), oltre che equo (per il senso di giustizia dei cittadini), anziché ridurre il numero degli scaglioni e relative aliquote ai tre già previsti nel 2025, prevedere un’aliquota aggiuntiva per tali redditi maggiorata di almeno 2/3 punti percentuali rispetto a quella del 43%, da applicare ai redditi appena sopra i 50.000 Euro.
Tale soluzione consentirebbe di recuperare i soldi ancora mancanti per soddisfare le aspettative di qualche milione di contribuenti, tenendo conto che negli ultimi cinquant’anni per effetto dei continui interventi adottati sull’impianto del sistema fiscale italiano, i redditi più elevati – ovvero superiori alla soglia che costituisce l’ultima classe di reddito rappresentata dal Dipartimento delle Entrate (da un minimo di 300.000 euro ad un massimo infinito di euro) hanno beneficiato di una riduzione fiscale dal 72% del 1974 al 43% dall’anno 2005 a tutt’oggi. Uno sconto che non ha riguardato né i redditi più bassi, che al contrario sono stati sottoposti ad una tassazione maggiore (dal 10% del 1974 al 23% di oggi), né i redditi, cosiddetti medi, che da soli sostengono l’intero sistema del welfare italiano.
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