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Germano Calligaro

Daniele Franchi: storia di un amico, un esempio senza confini

Aggiornamento: 3 giorni fa

di Germano Calligaro


L'11 gennaio del 2022 moriva all'ospedale Mauriziano di Torino Daniele Franchi[1]. Ingegnere metallurgico, stimato in Italia e all'estero per le sue capacità e competenza professionali, Daniele Franchi è stato soprattutto una persona di grande dirittura morale. Una qualità, merce davvero rara, diventata pubblica e nota negli anni a cavallo tra la fine del Novecento e l'inizio del Duemila, quando membro del consiglio di amministrazione dell'Ospedale dell'Ordine Mauriziano Umberto I, non esitò a battersi, e seppe reggere testa a calunnie e mistificazioni, per ristabilire la verità sulle controversie giudiziarie e sanitarie che videro di fronte i vertici dell'Ordine Mauriziano alla Regione Piemonte e alla Corte dei Conti. La sua fu una battaglia incessante, a viso scoperto, che seppe rovesciare, coinvolgendo stampa e radiotelevisione, una ricostruzione della vicenda e, soprattutto, della formazione dei conti finanziari dell'Ordine Mauriziano, artatamente faziosa. Una trama rovesciata anni dopo da una mirabile sentenza dalla magistratura. Allo spirito indomito di Daniele Franchi l'Ospedale Mauriziano non è rimasto insensibile e poco meno di due anni fa gli ha intitolato un padiglione.[2] Nei primi mesi del 2024, la Porta di Vetro ha lanciato la proposta di una Borsa di studio in suo onore; un progetto che ci si augura di raggiungere, nonostante difficoltà di varia natura, entro quest'anno.[3] Germano Calligaro, che gli è stato amico per decenni e con il quale ha condiviso una comune e lunga militanza politica, ne ha tracciato un ritratto per la Porta di Vetro.

Michele Ruggiero


Daniele Franchi nacque nel 1939 in una famiglia numerosa di un paesino del Friuli e, ultimo di sette figli, perse la madre quando aveva solo cinque anni. In seguito il padre si risposò con una donna che, oltre a metterne al mondo altri due, allevò quei sette bambini come se fossero figli suoi. Cattiva matrigna, invece, era la terra di confine del Friuli, una regione che a quei tempi non offriva alcuna prospettiva di lavoro. Così, come centinaia di migliaia di altre persone, anche i componenti della famiglia Franchi furono costretti ad emigrare. I fratelli e le sorelle maggiori emigrarono in Francia, come già prima di loro aveva fatto il padre. E nel 1960 anche Daniele, conseguito il diploma, lasciò l’Italia per stabilirsi in Svizzera, dove trovò lavoro come tecnico.

Per cinque anni, facendo enormi sacrifici, riuscì sia a lavorare che a frequentare il Politecnico di Losanna, ottenendo nel 1965 la laurea in ingegneria metallurgica. A soli ventisei anni, partendo dal nulla, aveva già conquistato una posizione lavorativa di prim’ordine. Successivamente conseguì anche una laurea in lingua francese.

Nel dopoguerra l’economia svizzera, avvalendosi della manodopera straniera, conobbe uno sviluppo impetuoso: tra il 1950 e il 1970 la percentuale dei lavoratori stranieri, esclusi i frontalieri e gli stagionali, era aumentata di ben tre volte, mentre il PIL svizzero era quasi raddoppiato. Le autorità elvetiche governarono con estrema rigidità i fussi immigratori e il mercato del lavoro, determinando una continua rotazione e un diffuso precariato della forza lavoro straniera. Ciò permise loro di limitare la dinamica delle retribuzioni dei lavoratori e in particolare i diritti dei lavoratori stranieri, usando questi ultimi come una sorta di ammortizzatore degli effetti di un’eventuale crisi economica.

La Svizzera, in sostanza, voleva le braccia a buon mercato dei lavoratori stranieri per le mansioni più dure e disagiate, ma non che questi si stabilissero definitivamente nella Confederazione – molti vivevano nelle baracche – né tanto meno che si ricongiungessero ai propri familiari. Da una parte, semplicemente, la Stato elvetico rifiutava di farsi carico degli oneri sociali che il flusso migratorio portava con sé; dall'altra, temeva il contagio dei lavoratori o di sinistra e dichiaratamente comunisti. Lo scrittore svizzero Max Frisch ha sintetizzato efficacemente il fenomeno immigratorio nel suo paese: «Volevamo braccia, sono arrivati esseri umani».

Particolarmente drammatica fu la situazione delle decine di migliaia di famiglie di lavoratori stagionali, con permesso temporaneo, ricongiunte clandestinamente, i cui figli – i cosiddetti “bambini invisibili” – non solo non potevano frequentare la scuola, ma erano costretti a vivere nascosti in casa per il timore di essere prima denunciati e poi espulsi. Ma anche per i lavoratori meno precari il ricongiungimento familiare era una conquista difficile: veniva concesso solo a determinate condizioni e dopo anni di attesa. La legge che generava queste discriminazioni è rimasta in vigore fino al 2002, quando, finalmente, l'allora Ministro della Giustizia la definì «disumana».

Norme rigorose limitavano la mobilità geografica, professionale e sociale della forza lavoro: era vietato cambiare occupazione senza l’autorizzazione del proprio datore di lavoro, come era vietato mettersi in proprio. Solo a coloro che rivestivano funzioni dirigenziali, tecniche e di lavoro specializzato, era possibile evitare le limitazioni più gravose. Insomma: la Svizzera offriva quel lavoro che in Italia era difficile da trovare, e con retribuzioni mediamente più elevate, ma in una situazione sociale complessiva pesantissima per la maggiore parte dei nostri emigranti.

Inoltre, proprio nel decennio 1960-1970, riprese vigore, sia tra la popolazione che all'interno delle autorità svizzere, il dibattito politico riguardante il «problema della manodopera straniera», in particolare di quella italiana largamente maggioritaria. Oltre agli argomenti economici, si sommavano quelli di carattere culturale che mettevano in risalto il pericolo di subire una «invasione di emigranti», con la conseguente «perdita d'identità» della Confederazione. Posizioni che si sarebbero ovviamente trasformate in aperta ostilità e in manifestazioni xenofobiche nei confronti degli stranieri.

Il giovane Franchi trovò fn dall’inizio un buon lavoro, si impegnò nello studio, ma senza limitarsi a pensare solamente ai suoi problemi. Come era solito fare, si guardava attorno: vide i tanti connazionali in diffcoltà e si impegnò senza esitazione a favore dei più deboli. Egli proveniva da una famiglia antifascista e di sinistra e, a Losanna, conobbe la fiorente associazione della Federazione Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLI), che promoveva iniziative di carattere politico, culturale, ricreativo. La prima colonia era sorta a metà degli anni Venti ad opera degli esuli antifascisti i quali, per distinguerla radicalmente dalle associazioni legate al regime fascista, la definirono «libera». Nel 1943, alla caduta del regime fascista in Italia, le dieci Colonie libere della Svizzera si federarono e si incaricarono di rappresentare gli interessi degli immigrati presso le autorità svizzere e italiane e a negoziare con le organizzazioni sindacali di entrambi i paesi, invitando i propri aderenti ad aderirvi. Franchi entrò nell’associazione, divenne attivista e organizzatore e successivamente, grazie alla sua proverbiale serietà, assunse responsabilità di direzione.

In quegli anni i diritti politici erano ancora preclusi agli stranieri. Una legge «a tutela dell’ordine democratico costituito» colpì soprattutto i comunisti e gli anarchici: di conseguenza, i comunisti dovettero organizzarsi clandestinamente fin dal dopoguerra. Daniele Franchi si iscrisse proprio al PCI: le sue prime esperienze di attività associativa e solidale lo avevano portato a stretto contatto con la dura realtà dell’immigrazione e gli avevano fatto maturare una presa di posizione politica più netta e radicale.

Tra i comunisti conobbe Gino Morelato, tipografo sessantenne di origine vicentina, che diventò il suo mentore. Morelato era un uomo di grande carisma, che aveva attraversato da protagonista gli eventi più importanti degli ultimi decenni: appena diciottenne, aveva partecipato alla fondazione del Pcd'I; nel 1927 era stato arrestato a Milano e condannato dal Tribunale Speciale a 7 anni di carcere per «associazione sovversiva ed esercizio abusivo dell’arte tipografica»; nel 1936 aveva combattuto come commissario politico nella Guerra di Spagna nelle Brigate Internazionali; internato in Francia, era evaso per partecipare alla Resistenza Francese; rientrato in Italia nel 1945, era emigrato successivamente in Svizzera. Tra Franchi e Morelato di stabilì un legame strettissimo e profondo che durò tutta la vita.

Alla fne del gennaio del 1966 si svolse a Roma l’XI congresso del PCI. Daniele Franchi fu eletto tra i delegati a rappresentare i comunisti italiani emigrati in Svizzera. Partecipò al congresso sotto falso nome: «delegato Rossi». Il delegato Rossi denunciò l’uso strumentale dell'emigrazione fatto da un governo dopo l'altro per contenere le tensioni sociali del paese; sottolineò i rilevanti benefici ottenuti dall’Italia con le laute rimesse in valuta pregiata degli emigrati; documentò lo stato di completo abbandono in cui essi si trovavano, descrivendone con precisione gli innumerevoli problemi; rivendicò con vigore una politica organica a loro favore, che fosse in linea con gli altri paesi europei.

Nel frattempo, ogni cautela adottata servì a poco, il collegamento tra le polizie dei due paesi evidentemente funzionava: al suo ritorno da Roma, il datore di lavoro lo convocò e, dimostrandosi ben informato sulle sue attività politiche, gli disse che l’azienda era comunque intenzionata ad avvalersi della sua preziosa collaborazione, perlomeno fnché non fosse intervenuto un provvedimento di polizia. Era, questo, il segnale inconfondibile di una più severa attenzione nei suoi confronti: Daniele Franchi subì infatti continui pedinamenti e l'apertura sistematica della sua corrispondenza. Un agente segnalò puntualmente la nuova convivenza «con una ragazza dal cognome tedesco»: era una giovane donna emigrata dal Veneto, con la quale Daniele si sarebbe sposato a Torino nel 1967. Il controllo della polizia svizzera nei suoi confronti si era fatto sempre più serrato. Furono presi provvedimenti di espulsione nei confronti degli emigrati emigrati politicamente impegnati. Così, dopo la nascita del primo fglio, anche Daniele Franchi si trovò di fronte a un drammatico dilemma: attendere il provvedimento di espulsione, oppure tornare in Italia con tutta la famiglia. Nel 1968 decise di rientrare.

La scelta si dimostrò vincente: potrà tornare in Svizzera ogni volta che lo vorrà, essendo amato da molte persone, e anche stimato per le sue doti professionali. Per l’esperienza acquisita, inoltre, potrà essere prezioso all’associazionismo e al suo partito anche verso l’emigrazione nei paesi del Centro Europa.

La famiglia Franchi si sistemò a Torino. Daniele, dopo quasi dieci anni di esperienza, era fermamente deciso a non abbandonare le organizzazioni interessate al tema dell’emigrazione. Dunque, dopo la settimana lavorativa, nei giorni festivi, invece del meritato riposo, affrontava viaggi all’estero per incontrare rappresentanti delle associazoni o del partito. Per tornare il lunedì mattina al suo posto di lavoro in fabbrica. Fece decine di viaggi all’anno in città svizzere, belghe e tedesche. Nel frattempo, era nato il secondo fglio. Questo stile di vita insostenibile per la sua salute durò fno al 1971, quando si ammalò gravemente e fu ricoverato in sanatorio per tre anni.

In famiglia la situazione divenne drammatica anche dal punto di vista economico: all'improvviso, la moglie si trovò con due bambini piccoli da allevare e senza l'unico reddito per il sostentamento. Furono decisivi gli aiuti dei numerosi fratelli emigrati in Francia che fortunatamente, grazie al lavoro e al risparmio, avevano raggiunto solide condizioni economiche. Così come fu importante la collaborazione dei compagni di partito con la famiglia e la solidarietà morale degli emigrati, con i quali Daniele non perse mai il contatto.

Nel 1974 tornò guarito, riprese il lavoro e l’attività di partito a Torino e, con maggiore moderazione, gli incontri con le organizzazioni dell’emigrazione e del partito all’estero. Non vi fu elezione politica in cui non accorresse a Domodossola per accogliere gli emigrati che tornavano dal Centro Europa con i treni internazionali straordinari. Essi, appena giunti in Italia, esponevano un lunghissimo striscione: «Torniamo per votare, votiamo per cambiare!». Appena il treno si fermava, si aprivano i finestrini delle carrozze, si udiva un unico richiamo: «Franchi! Franchi!» con decine di mani che si protendevano in cerca della sua.

Alla III Conferenza dell’Emigrazione del Friuli Venezia Giulia, che si svolse nel corso di tre giorni nel settembre del 1985 a Grado, Franchi si iscrisse a parlare tra i primissimi. Alla Presidenza ben sapevano che egli era un delegato critico e severo, inadatto a sorvolare sulla gravità dei problemi e ad accettare di buon grado la situazione esistente: così, fecero di tutto per non farlo parlare. La conferenza si svolse stancamente senza affrontare nessuna delle questioni più spinose per la vita degli emigranti e, dopo numerosi solleciti, Franchi capì che non avrebbe avuto alcuno spazio.

Quando il convegno fu vicino alle conclusioni, balzò in piedi, raggiunse il palco, afferrò il microfono e pretese di potersi esprimere. Il Presidente considerò l’atto inaccettabile e volle togliergli la parola, sollevando la protesta dei delegati. Così, in un clima di viva tensione, Franchi iniziò a parlare. Esordì come al solito con un attacco frontale: per il modo in cui era stata condotta, la conferenza rappresentava un’occasione persa e uno spreco di danaro pubblico. Oltre a questo, egli avanzò una proposta concreta di politica economica e industriale nazionale, volta ad ampliare la base produttiva del paese e capace di creare, nel contempo, le condizioni per un graduale ritorno in patria della forza lavoro emigrata. Fu un'idea che colpì favorevolmente l’uditorio per organicità e fondatezza di argomentazione: Daniele Franchi fu per questo lungamente applaudito.

Alcuni anni dopo, nel 1989, in Svizzera scoppiò uno scandalo clamoroso, quello delle schedature da parte delle autorità federali e delle forze di polizia cantonali: si trattava, a tutti gli effetti, di un imponente sistema di sorveglianza di massa della popolazione. Centinaia di migliaia di dossier - 900 mila su una popolazione di circa 6 milioni di abitanti – tutti collezionati in archivi segreti. La schedatura riguardava in larga parte cittadini stranieri e appartenenti a varie organizzazioni sindacali e gruppi di sinistra, ma anche cittadini svizzeri. Nel 1990 una commissione governativa confermò l’esistenza di dossier segreti acquisiti illegalmente, tanto che alcuni anni dopo fu consentito, a coloro che presumevano di essere stati controllati, di fare richiesta per venire in possesso degli eventuali dossier personali. Né più e né meno di quanto accadde in Germania negli stessi anni, dopo la riunificazione e l'apertura dei dossier della Stasi, la polizia segreta di Berlino Est.

Daniele Franchi fu uno di questi. Avviò immediatamente la pratica e, alla conferma dell’esistenza di un dossier sulla propria persona, si precipitò in Svizzera per ottenerne una copia: era un faldone di quasi 600 pagine, con una descrizione accuratissima di tutto quello che aveva fatto da quando era arrivato in Svizzera, nel lontano 1960. Egli commentò: «Quale migliore prova di quale fosse stata effettivamente la mia “attività sovversiva” e in che cosa fosse consistito veramente “l'attacco all’ordine democratico” da parte di un comunista clandestino come me, se non il dossier di polizia intestato a mio nome?». Appunto: quale migliore prova di chi fossero i veri nemici dell’ordine democratico elvetico, se non gli autori di centinaia di migliaia di dossier illegali e segreti?

Daniele Franchi è stato un combattente indomito nel corso della sua vita. In larga parte l’ha dedicata agli altri, ai più umili, ai più deboli e svantaggiati, ai lavoratori. Ha praticato con rigore e coerenza la solidarietà. Preferisco ricordarlo come un moderno cavaliere senza macchia e senza paura. Un esempio, è il caso di dirlo, davvero senza confini.


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