Coronavirus, le troppe e pericolose “dipendenze” strategiche dell’Unione Europea
Aggiornamento: 21 apr 2023
di Mercedes Bresso
È molto importante la discussione sulla proposta franco-tedesca, di 500 miliardi di euro a fondo perduto per completare il pacchetto di misure per aiutare gli Stati membri a uscire senza troppi danni dalla crisi provocata dal Covid19. Che peraltro non è affatto dietro le nostre spalle, soprattutto se ci saranno in autunno delle riprese delle contaminazioni. E che richiederà molti investimenti, per riorganizzare le nostre economie. Gli strumenti proposti sono utilissimi ma non sufficienti, serve non solo un pacchetto di misure finanziarie, probabilmente ancora maggiore, ma anche un accordo strategico sul futuro dell’Unione. Già nel 2008 non abbiamo capito la lezione: in quel caso sui problemi che poneva una finanza globalizzata a Stati i cui sistemi fiscali e di supporto all’economia erano ancora rigorosamente interni alle loro frontiere. E l’Unione Europea, che sapeva di dover procedere con l’Unione Bancaria, con la uniformizzazione della tassazione sulle imprese, con il controllo della finanza speculativa (la proposta della tassa sulle transazioni finanziarie, approvata ma mai andata in porto), con la lotta ai paradisi fiscali esterni ma anche interni e soprattutto con il rafforzamento dell’euro attraverso una comune politica economica, si è persa in infiniti negoziati senza riuscire a concludere accordi solidi su nessuno di questi (e altri) passi indispensabili per mettersi al sicuro da una futura crisi. Che è puntualmente arrivata ma, come spesso capita, su basi completamente diverse. I limiti della globalizzazione
Questa volta la pandemia e la necessità di chiudere le frontiere, provvedendo al tempo stesso ai beni essenziali, soprattutto alimenti e prodotti sanitari, ha messo drammaticamente in evidenza l’altro limite di una globalizzazione solo economica: il fatto che molti paesi e la stessa Unione Europea, non producono più le materie di base necessarie alle proprie industrie. Lo si è visto con la farmaceutica, di cui abbiamo scoperto la dipendenza dalla Cina per le componenti chimiche di base, lo si è verificato persino per prodotti molto semplici come mascherine o respiratori. C’è da chiedersi, visto che ciò vale anche per l’acciaio e per molte componenti essenziali dell’elettronica e del digitale, che cosa succederebbe in caso di un conflitto bellico, tanto per fare un esempio. Migliore è la situazione per i prodotti agricoli, perché la tanto vituperata PAC (politica agricola comunitaria) ha salvato dalla sparizione, a forza di sussidi, aiuti, programmi di innovazione, recentemente anche grazie anche alla svolta green, la nostra agricoltura europea. Così, almeno sul cibo e grazie alla PAC, almeno non ci è mancato il necessario. A quando una politica industriale europea?
Che conseguenze dobbiamo tirarne? Di nuovo, che serve una vera politica europea per l’industria, per far sì che l’Europa sia autosufficiente per tutte le produzioni di base e strategiche, anche accettando il fatto che se i costi del produrre da noi sono superiori, occorreranno delle protezioni doganali e dei sussidi. Come fu ed è per l’agricoltura, oggi è l’industria ad essere fragile, perché il valore aggiunto della produzione è sempre minore. Il terziario e in particolare la finanza, si sono appropriati della maggior parte del valore aggiunto a scapito dei settori primario e secondario, in particolare per le produzione di base. La crisi ci ha però ricordato come non si viva di solo commercio e servizi e come le filiere produttive siano complesse e vadano conosciute e protette. Ma anche come siano essenziali gli investimenti in ricerca e innovazione, si veda la competizione mondiale sul vaccino. In conclusione: servono molte più risorse, non solo straordinarie ma anche nel bilancio ordinario dell’UE, per fare fronte al futuro, non certo per pagare i debiti pregressi degli Stati Membri, come sembrano credere i 4 avari e sciocchi paesi del nord Europa. Ritornare ad essere protagonisti
Perché, è credo evidente a tutti, solo l’Unione Europea può accettare la sfida: siamo ancora il più grande mercato del mondo, ma non siamo più in grado di essere un potenza economica capace di competere con le altre, ridotte ormai solo a due, USA e Cina. Più in fretta capiremo che solo insieme possiamo farcela a tornare ad essere uno dei protagonisti dell’economia mondiale, meglio sarà. Ma la crisi non è solo economica ma anche politica, sta accelerando la fine del processo di globalizzazione che ha fatto emergere nuove potenze economiche, come la Cina o l’India e che ha rafforzato il dominio statunitense nella finanza e nelle tecnologie digitali. E per tornare a contare nel mondo, non basterà essere il più grande mercato, occorrerà anche essere una grande potenza politica: questo è il vero problema dell’Unione Europea, che non potrà essere risolto da questa Unione com’è oggi ma da un gruppo di Stati, certamente più piccolo, disposti a cedere davvero quote di sovranità politica.
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