Contro la parità di genere che usa il pinkwashing ideologico
- Rosanna Caraci
- 8 mar
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di Rosanna Caraci

La parità di genere? Forse, tra 152 anni. Un tempo certamente troppo lungo anche per il più longevo tra i presenti che si dovrà quindi rassegnare. A dirlo è l’ultimo "Global Gender Gap Report" del World Economic Forum che sottolinea come anche quest’anno nessun paese al mondo abbia raggiunto la parità di genere nel campo economico e il dato più preoccupante per l’Italia è quello dell’occupazione. Sono il 51 per cento le donne al lavoro al nord mentre solo il 33 per cento al sud. Numeri che ci mantengono saldi all’ultimo posto in Europa per la partecipazione femminile al lavoro.
E’ l'Otto marzo che come gli altri evidenzierà, strizzando l’occhio alla retorica di circostanza, quanto la politica, la società, la cultura del Paese devono prendersi sul serio e avere il coraggio di ammettere che ciò che viene fatto non basta. Per evitare che la giornata di oggi, Giornata internazionale della donna, diventi l’occasione per sciacquarsi la bocca di rosa, pennellando di buone intenzioni la propria facciata istituzionale, gli ambienti del potere economico e politico dovrebbero ammettere come ciò che soffoca la parità di genere sia non tanto il rigido soffitto di cristallo, ancora ben lontano dall’essere raggiunto, ma un certo disimpegno da ciò che viene invece propugnato anche e soprattutto nelle sedi istituzionali.
Se negli Stati Uniti le donne prima di tutto pagano il prezzo della cultura woke che impone il neutro anche nelle lingue che il neutro non ce l’hanno, se in Italia siamo diventati lo zimbello di asterischi, vocali rovesciate e nuove pronunce rispettose del genere indefinito, la parità effettiva tra uomo e donna corre il rischio di rimbalzare tra le reti del ring del quotidiano, fatto di luoghi comuni e di un più insidioso pink washing che dalla narrazione pubblicitaria a quella politica sta sempre più ingannando proprio le donne per prime.
Rapporto Cnel-Istat
La parità di genere senza impegno è quella che oggi, dati dell’Istat alla mano, ci dice che nonostante le campagne pubblicitarie, i titoli sui giornali e, per ciò che riguarda la nostra regione, una legge per la parità retributiva tra i sessi non applicata, nel 2023 circa la metà dell'occupazione femminile risulta concentrata in sole 21 professioni, che salgono a 53 se si parla di uomini.
E’ quanto sottolineato dal rapporto Cnel – Istat “il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità” che evidenzia come nonostante i progressi, la posizione delle donne sul mercato del lavoro sia ancora oggi fortemente condizionata da processi di “segregazione” che conducono a una distribuzione non uniforme delle occupazioni tra i sessi, concentrando uno dei due generi in determinate professioni o settori di attività. Si parla, in particolare, di segregazione “orizzontale” in presenza di una maggiore concentrazione in un numero ristretto di professioni, mentre il concetto di segregazione “verticale” si riferisce alla difficoltà che sperimentano le donne nell’accesso a professioni qualificate o a posizioni di vertice all’interno delle organizzazioni.
Per le donne, tra le professioni più frequenti troviamo le addette agli affari generali e segretarie, le commesse, le badanti, le colf, le infermiere e le operatrici socio-sanitarie, le addette ai servizi di pulizia e le maestre di scuola primaria. Tra le professioni specialistico/intellettuali, troviamo esclusivamente quelle legate all’ambito della formazione. Tra le professioni tecniche, si annoverano le professioni sanitarie e infermieristiche, insieme alle contabili. È comune per le donne esercitare professioni nel commercio e nei servizi. Infine, tra le professioni non qualificate, molte donne lavorano come collaboratrici domestiche, addette alla pulizia di uffici e locali commerciali e bidelle.
Tassi di occupazione ineguali
In generale, rispetto al panorama dell’occupazione femminile, quello maschile risulta molto più variegato: alle numerose professioni dell’ambito operaio e a quelle non qualificate si affiancano le professioni tecniche e le professioni qualificate. I divari occupazionali di genere sono minimi, ma sempre a favore degli uomini, anche nelle discipline a prevalenza femminile: per esempio, per le lauree umanistiche (2,2 punti; 81,2% e 79,0%, rispettivamente) e per quelle mediche-sanitarie (3,3 punti; 90,7% e 87,4%, rispettivamente). Lo svantaggio femminile è invece massimo nelle lauree scientifiche, tecniche e matematiche (-9,2 punti; 90,1% e 80,9%) e nelle discipline socio-economiche e giuridiche (-7,8 punti; 88,6% e 80,8%), sebbene offrano elevate opportunità di partecipazione al mercato del lavoro a entrambi i generi. In particolare, il tasso di occupazione femminile per l’area “scienze e matematica” è inferiore a quello maschile di 6,3 punti percentuali (80,1% e 86,4% rispettivamente) e per l’area “informatica, ingegneria e architettura” la differenza nei tassi di occupazione raggiunge i 9,3 punti percentuali (81,8% contro 91,1%).
Le disuguaglianze di genere nei tassi di occupazione trovano in parte ragione nella difficoltà di combinare una carriera professionale con un ruolo di responsabilità domestica e familiare. L’analisi dei divari di genere nei tassi di occupazione per ruolo in famiglia evidenzia una sostanziale parità di genere nei tassi di occupazione dei laureati STEM tra i single, mentre tra quanti vivono in coppia il gap diventa elevato e a sfavore delle donne, accentuandosi ulteriormente in presenza di figli. Parlano ancora una volta i numeri. Il rendiconto di genere 2024 redatto dal consiglio di indirizzo e vigilanza dell’INPS dice che nel 2023, solo il 52,5% delle donne risulta occupato, contro il 70,4% degli uomini.
Cresce in Italia il gender pay gap
E gli stipendi? Secondo i dati 2023 dell’Osservatorio INPS sui lavoratori dipendenti del settore privato, la retribuzione media annua complessiva è di 22.839 euro; per il genere maschile è di 26.227 euro contro i 18.305 euro del genere femminile. Quasi 8 mila euro l'anno in meno per le donne. Non solo: il gender pay gap è addirittura in aumento rispetto al 2021, quando era pari a 7.908 euro, e al 2022, quando era di 7.922. Una situazione che riguarda anche altri paesi dell’Unione Europea, dove le donne continuano a guadagnare meno degli uomini, con un divario retributivo medio di genere nell’UE pari al 13%. Ciò significa che per ogni euro guadagnato da un uomo, una donna percepisce solo 0,87 euro. A differenza del trend italiano, il divario retributivo di genere in Europa è diminuito di 2,8 punti percentuali nell’ultimo decennio.
Nel bel Paese dunque ancora moltissimo lavoro da fare per venire a capo di una situazione inaccettabile che richiede non più solo la rivendicazione del diritto alla parità autentica ma una vera e propria azione, forte della convinzione che non si tratta più di lotta femminista ma di un’acquisita consapevolezza che il lavoro femminile è pari a quello maschile e di conseguenza deve essere trattato, sotto ogni punto di vista soprattutto considerato che, negli ultimi dieci anni, risultati ne sono stati ottenuti. Ci si chiede allora se davvero le donne che hanno raggiunto posizioni di potere e che ce l’hanno fatta, a sfondare il soffitto di cristallo, stiano concretamente impegnandosi per quelle rimaste indietro. Cambiare il sistema dall’interno, con la forza che arriva dall’esterno può e deve dare risultati. Cosa fanno le donne che oggi sono al potere? Hanno resistito alla mascolinizzazione del pensiero e della postura che i vertici spesso sembrano imporre?
Proprio per colmare la differenza retributiva tra i generi, il Consiglio regionale ha votato all’unanimità la legge 11 “Disposizioni per la promozione della parità retributiva tra i sessi e il sostegno all'occupazione femminile stabile e di qualità”: il suo obiettivo è ben chiaro. Il problema è che è stata votata nel 2021, ben quattro anni fa e che ad oggi risulta di fatto inapplicata. A chi ne ha chiesto motivo, la Giunta ha risposto che la “certificazione di parità” introdotta a livello nazionale di fatto renderebbe superata la missione che si era proposta la legge 11. Burocratese? Non tanto.
La "certificazione di parità"
Introdotta dalla legge 162/2021 all’interno del Codice delle Pari opportunità come requisito per riconoscere e promuovere, a partire dal primo gennaio 2022, le organizzazioni più virtuose, attesta la conformità delle politiche aziendali, e la loro effettiva attuazione, agli standard internazionali, volti a ridurre il divario nelle opportunità tra donne e uomini, a promuovere la parità salariale, a gestire le differenze di genere e a tutelare la maternità. Considerando l’importanza di questi obiettivi, l’Italia si è impegnata con l’Unione Europea, nell’ambito dell’attuazione del PNRR, a raggiungere i livelli minimi di adesione alla certificazione.
La “certificazione di parità” è però volontaria. Certo meno incisiva di una legge regionale che è di fatto obbligatorio rispettare, se fosse regolamentata. Ci troviamo pertanto di fronte all’ennesimo pink washing, un tentativo cioè di far credere che si è per la pari opportunità dei generi, dando una bella “pennellata di rosa” a qualche iniziativa, salvo poi non fare granché per rendere concreto l’impegno che resta superficiale.
Di fronte a queste sparate che altro non consentono che un po’ di visibilità sui giornali, l’otto marzo non può che essere ostaggio del pianto greco di una parte e dell’imbellettamento di un’altra: accendere monumenti, fare dibattiti, snocciolare numeri per dire che oggi ancora le donne lamentano l’essere discriminate è un esercizio di mera narrazione propagandistica trasversale. Occorre andare oltre al lessico da suffragette per mettere davvero pressione ai Governi e al mondo produttivo. La riduzione del gender gap salariale non solo stimola la produttività, favorendo l'uguaglianza dei redditi, ma contribuisce anche a diversificare l'assetto economico globale. Un aumento della presenza femminile nel settore del lavoro retribuito non solo rappresenta un principio di equità, ma si traduce anche in vantaggi economici tangibili per tutti.
A Torino, la circoscrizione 3 ha presentato proprio a ridosso dell’8 marzo il proprio Bilancio di genere, dove viene evidenziato non solo cosa è stato fatto per le donne, che da sole rappresentano il 52% della popolazione del territorio (Borgo San Paolo, Cenisia, Cit Turin, Pozzo Strada), ma che la pari opportunità è in ogni politica: dal welfare, all’ambiente, ai trasporti, al lavoro. Il bilancio, pari a 826 mila euro nel 2023. Per politiche dedicate in modo specifico al genere femminile, costituita dalle spese “sensibili al genere” cioè da attività e risorse dirette alla promozione delle pari opportunità e al sostegno di interventi specifici rivolti alle donne, è stato destinato il 2,4% del budget.
Le stime dell'Ocse
Nel 94,6% del bilancio, rientra tutto ciò che ha influito sulla vita delle donne: servizi per i bambini o gli anziani, alla famiglia, iniziative di sostegno economico o di miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente. Mantenere l’ente è costato il 3% del bilancio; nel proprio personale la circoscrizione 3 presenta una parità di genere tra dipendenti numericamente perfetta.
Secondo le stime dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), se il contributo economico delle donne raggiungesse la parità con quello degli uomini entro il 2025, il prodotto interno lordo annuo globale aumenterebbe del 26%, corrispondente a 28 trilioni di dollari.
Stando ai chiari di luna ben esplicitati dai rapporti citati fin qui, siamo ancora lontani dal prenderne consapevolezza in un Paese che si impoverisce. Cosa fare dunque per convertire l’otto marzo a qualcosa di meglio di un pianto greco? Andare oltre la trattazione femminista della questione del lavoro, sottolineando invece come le donne siano linfa per lo sviluppo di un mercato economico moderno. Convertire la lotta per i diritti, per la difesa di quelli acquisiti e l’acquisizione di quelli ancora non riconosciuti pienamente, a una narrazione diretta all’economia. Portare insomma la lotta per la pari retribuzione fuori dal recinto ideologico del gender ma spostarlo in quello più ampio e trasversale del profitto economico. Conviene a tutti che una donna sia ben retribuita, altrettanto che sia competitiva, produttiva, che abbia servizi che le consentano di dare il meglio di sé. La parità di genere non è un fine ma un mezzo per aumentare in modo esponenziale il potere di un Paese e della sua comunità.
Fino a quando non ci sarà da parte delle squadre in gioco questa consapevolezza, ci troveremo ogni anno a guardare il bicchiere mezzo vuoto.
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