Conflitto: "tossico" è soltanto rifiutarne il valore democratico
Aggiornamento: 7 giorni fa
di Beppe Borgogno
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La recente “uscita” della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che ha definito “tossico” il conflitto sindacale in un suo intervento all’assemblea della CISL, dice molto e offre molti argomenti su cui riflettere, ben oltre la tattica, politica e di comunicazione, che lei ha scelto di usare.
Anche il conflitto, quello sociale e sindacale tra tutti, è uno degli elementi che contraddistinguono le democrazie. E le democrazie che funzionano sono quelle che si dotano di figure e strumenti in grado di regolare il conflitto medesimo, certo non immaginando che esso, in una dinamica plurale la cui natura dialettica è ben di più del solo confronto elettorale, possa essere annullato.
In passato, anche nel centrosinistra, ci fu chi tentò di “normalizzare” questo conflitto. Ma la vera novità di oggi è che la voluta confusione sul significato di “conflitto” si allunga fino a quella sul significato di “democrazia”.
In una democrazia liberale sono ben altri i conflitti che dovrebbero preoccupare anche chi governa. In primo luogo quelli tra le istituzioni di cui la democrazia si compone, e la cui regolazione è certamente più delicata di quella che riguarda i conflitti sociali, tanto da prevedere addirittura alcuni automatismi che la rendono possibile. Inutili, però, se gli attori della scena istituzionale non interpretano il ruolo che spetta loro con autentico senso dello Stato e, appunto, delle istituzioni.
E a meno che non vi sia, dietro a questo stiracchiare e forzare il senso delle parole, una deliberata intenzione. Quella, forse, di trasformare la natura ed il senso del confronto e della convivenza democratica già nella prassi quotidiana, prima ancora che nella riscrittura delle regole, per creare un nuovo “senso comune” lungo una strada che per qualcuno sta trasformando le nostre società in luoghi finora sconosciuti, le “postdemocrazie”.
Per tornare al “conflitto”, per esempio, mentre si parla della sue presunta “tossicità” nelle dinamiche sociali, sembra diventare ancora più “accettabile” quello armato per regolare i rapporti internazionali nell’era della crisi sempre più acuta delle democrazie liberali.
E persino la “pace” per far finire la guerra in Ucraina, in questa nuova luce, cambia il suo senso se a discuterne sono gli Stati Uniti e l'invasore, cioè la Russia, senza l’Europa, coinvolta non soltanto economicamente, e l'invaso, cioè l’Ucraina. Non che fosse così geniale l’idea di costruire un tavolo di negoziato che escludesse la Russia, ma un meccanismo che possa infine addirittura premiare l’aggressore escludendo l'aggredito cambierebbe davvero l’orizzonte ed il senso anche del diritto internazionale.
O ancora, sempre per rimanere alla soluzione dei conflitti armati, le postdemocrazie forse sono luoghi in cui si può chiamare “pace” l’idea di deportare altrove un popolo, quello palestinese, che di pace non ne ha avuta mai. E probabilmente questa è una delle ragioni per cui ha finito, da simbolo di un mondo senza guerre, per diventare oggetto di scambio cinico tra interessi che c’entrano poco col futuro di pace autentica a cui avrebbe diritto.
Diventa allora “normale” e accettabile anche un altro conflitto, quello contro le istituzioni internazionali, dall'Onu all'Oms. Che non sono certamente un sistema efficace e l’incarnazione di un mondo che dialoga e funziona, ma che sembrerebbe più logico, in epoca di tanti nuovi e pericolosi conflitti armati e virulente pandemie, riformare e far funzionare meglio piuttosto che delegittimarle quasi definitivamente.
Mentre i fatti sembrano ridisegnare l’ordine mondiale, con grande evidenza valgono intanto la logica e la pratica di chi è più forte in questa pericolosa confusione. E chissà che anche “confusione” non sia una parola, ed una circostanza, destinata a cambiare senso, se anche questo serve a ribaltare i rapporti di forza a vantaggio di un cambiamento, nel mondo, che si comincia sul serio a vedere e che sa in realtà di ritorno al passato: ad un mondo più diviso, al ritorno degli egoismi sia sociali che nazionali, a società meno mobili ed aperte. Magari, però, addolcite dall’illusione di libertà che ci dà la comunicazione globale e globalizzata, secondo le regole stabilite da una sorta di feudalesimo digitale, tanto da dare un senso nuovo anche alla parola “cambiamento”.
Tornando cose di casa nostra, in questo scivolare dei significati si finisce persino per far apparire naturale e persino logico, che un torturatore venga rimesso in libertà e riportato, a spese dello Stato perché “pericoloso”, nel paese in cui ha commesso i reati che lo hanno, appunto, reso pericoloso. Cioè, messo nelle condizioni per ritornare a commetterli, anziché il contrario.
Ma tant’è, a quanto pare, può bastare questa spiegazione in un’epoca in cui anche le parole perdono, come vediamo, il loro significato ed anche l’indignazione rischia di diventare “conflitto tossico”.
Purtroppo tutti questi esempi hanno davvero a che fare con i giorni che stiamo vivendo, ed è sbagliato considerarli poco più della polemica di uno o qualcuno di questi giorni confusi, tanto poi tutto andrà a posto. Come minimo, i fatti certamente più delle parole che cambiano significato, tutto questo sedimenta e lascia un segno. E rende il dibattito pubblico, quello sì, piuttosto “tossico”.
Rimane la speranza che chi può prima o poi dica qualcosa, almeno per rimettere qualche parola al posto giusto. Non tutte le istituzioni internazionali sono delegittimabili, e nemmeno l’Europa se capisce che oggi più di prima le conviene essere meno ambigua e confusa, e più unita per essere più forte. Non lo è certamente il nostro Presidente della Repubblica, che sul conflitto istituzionale forse qualcosa potrebbe dire. Non lo può essere quella parte della politica e della società italiana, compreso il mondo della cultura, che dovrebbe fare qualche sforzo in più per uscire dai semplici rimpianti che vanno poco oltre la testimonianza, dai tatticismi poco efficaci, da una certa afonia, dalle divisioni. Anche questo rende più semplice il gioco di specchi di chi intanto lavora per dare un volto autoritario alla democrazia. Oppure, se qualcosa non cambia, dovremo convincerci che Willie Peyote, al Festival di Sanremo, ha capito dell’Italia più di un bel pezzo della politica che questa deriva in fin dei conti non la vuole.
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