Attraversando il Darién Gap con le foto di Federico Rios Escobar
Aggiornamento: 14 nov 2023
di Tiziana Bonomo
Il fotoreporter Federico Rios Escobar[1] ci fa conoscere un’altra porzione di mondo, di migrazione, di disperazione, di speranza. Penso che per fotografare l’umanità bisogna sentirla dentro, bisogna aver conosciuto la non umanità. E allora lo sguardo si posa senza indugio su ciò che si conosce e non su ciò che è bello, brutto, perfetto o non perfetto. La scena, davanti agli occhi di chi sente l’umanità, è una porzione di verità; quella verità che si fa fatica spesso ad accettare, ovvero quei gesti che inducono alla compassione, al rispetto, all’intenzione di documentare nel “miglior modo possibile” le difficoltà di alcune vite al limite della sopravvivenza. Al limite. Non all’apice della vita. Le porzioni di vita spesso sono poi piccoli gesti: uno sguardo, la piega di un corpo, il ragazzo che massaggia il piede di un uomo adulto con garbo con cura. Voi direte: ma come, ma cosa dici? banalità! Ebbene chi sa vedere queste banalità chi sa fotografe questi impercettibili attimi lasciandoci nell’immagine la sensazione di un destino, di una infinitesimale porzione di umanità come Escobar è uno straordinario fotografo. L’ho scoperto guardando con stupore la mostra “Paths of Desperate Hope/ Le chemin de la dernière chance” quest’anno al Festival di Fotogiornalismo di Perpignan. Lavoro con il quale Escobar ha vinto all'unanimità il 21 giugno 2023 l’Humanitarian Visa d’Or dell’International Committee of the Red Cross (ICRC) è sulla migrazione di migliaia di persone che attraversano il Darién Gap l’ultima regione a sud di Panama prima di arrivare in Colombia. Alcune fotografie mostrano alcuni migranti afghani. Mi sono domandata: Afghani, come è possibile? Come sono arrivati fino a Panama nella regione del Darién Gap?
A Perpignan ho avuto la possibilità di chiedere a Federico Escobar le mie perplessità grazie ad un’intervista di cui riporto alcuni salienti passaggi.
Sono un fotografo colombiano, ho iniziato a fotografare più di 20 anni fa, documentando nello specifico l’America Latina circa 8 anni fa, forse quando i venezuelani sono emigrati per andare in Colombia e alcuni di loro si sono mossi verso il sud del Brasile. E abbiamo camminato insieme su quelle stesse strade. Nel 2021 sono andato ad Haiti quando è stato assassinato il presidente haitiano, Jovenel Moïse. Mentre ero lì a documentare lo stato di emergenza, improvvisamente, ho sentito che migliaia di persone attraversavano il Darién Gap, una regione a sud di Panama. Ciò mi ha sorpreso e allo stesso tempo mi ha dato speranza e forza per lavorare su questo argomento. Mi rendo conto che in Europa e in America, anche persone dotate di una buona istruzione – che accedono ad Internet per conoscere – sanno così poco della geografia americana.
Capisci che dal sud degli Stati Uniti puoi andare a Panama, ma non puoi andare in Colombia perché c'è una grande foresta senza strade. Quindi dagli Stati Uniti, si attraversa Città del Messico e poi tutta l’America Centrale su strada e poi a Panama ci si ferma. Non c’è una foresta, c’è una giungla: cento chilometri di giungla. Non è come una linea retta. Se vuoi salire o scendere dalla Colombia, se vuoi attraversare dalla Colombia a Panama, devi comunque passare dalla giungla. Non ci sono strade lì, non c’è niente, c’è la giungla: dal 2010 al 2020 l'hanno attraversata 10.000 circa all'anno.
Nel 2021, quando il presidente di Haiti è stato ucciso, il numero è salito da 10.000 a 50.000. Così sono tornato ad Haiti e ho visto persone rischiare la vita nel Darién Gap. Ho visto famiglie sfidare la giungla, uscire da Panama, proseguire verso l'America Centrale per arrivare fino negli Stati Uniti.
Nel 2021 la maggior parte delle persone che attraversava il Darién Gap era haitiana. Haitiani che hanno lasciato il loro Paese 5 o 10 anni prima e vivevano nel sud del Cile o nel sud del Brasile, in Argentina, Bolivia sentivano che era il momento giusto per andare a nord. Mi sono immerso nella fitta vegetazione con loro. Nel 2021 ho impiegato 6 giorni e nel 2022 ci siamo incrociati con la mia compagna Julie, scrittrice, che tengo a ricordare per il lavoro svolto insieme. In una città puoi anche fare 40 km al giorno, ma nella giungla è già tanto se riesci a farne 8. È molto pericoloso: il cammino è ripido, molto fangoso e spesso c’è molta pioggia. La natura non è amica dell'uomo. Se guadi il fiume mentre l’acqua sale può essere trascinato dalla corrente e annegare. Molte persone sono morte così. Una traversata pericolosa dove molti non ce la fanno e dove chi può cerca di aiutare il più debole.
Nel 2022 circa 250.000 persone di cui più o meno 33.000 bambini hanno attraversato la giungla del Darién. La maggior parte per raggiungere gli Stati Uniti. In Italia non abbiamo una visione chiara della situazione perché?
Io sono molto sorpreso che molte persone non conoscano il Darién. Le persone tendono a pensare che il Nord e il Sud America siano connesse tra loro ma… non lo sono! Se si vuole arrivare dall’altra parte non c'è altra strada che la giungla. Nel 2022 circa 8 milioni di venezuelani hanno abbandonato il loro paese per la drammatica situazione che si è verificata dopo la morte di Chavez: niente scuole, niente cibo, niente energia, niente gas, niente macchina, niente lavoro. Così come molti in Europa non sanno che oltre ai migranti del centro-sud America, una larga parte arriva dall’Africa e dall’Asia: dall’Afghanistan, dal Nepal, dalla Cina, dalla Mauritania…
Ma come arrivano?
Molti di loro prendono l’aereo fino a dove è consentito. Ad esempio dalla Cina arrivano in Ecuador, sei hai un passaporto cinese tu puoi volare fino in Ecuador, in Colombia, in Brasile. I cinesi possono viaggiare ovunque. Viaggiano in autobus dall'Ecuador alla Colombia e attraversano il Darién a piedi. È pazzesco. Gli afghani vanno “via strada” verso l'Iran e la Turchia, poi volano fino in Qatar e da lì in Brasile da cui raggiungono la Colombia in rodoviaria. A destinazione, li aspettano altri 6-7 giorni di cammino nella giungla. È devastante e difficile anche per un uomo giovane abituato allo sforzo fisico.
Quando hai iniziato a dedicarti alla fotografia?
Da giovane, molto giovane, perché ho pensato che era il mio strumento per comunicare con la gente. Avevo 6 anni. Ora io vivo a Medellín, ma sono nato in un piccolo villaggio in Colombia. Mio padre era molto povero quando era giovane, comunque in qualche modo riuscì ad andare all’università, era super intelligente e ha lavorato molto duramente. Ha ottenuto una borsa di studio ed è andato in Egitto a studiare e quando è tornato in Colombia sono nato io. Il primo ricordo di mio padre, avevo 3 anni, è di lui nel soggiorno della nostra casa con i suoi amici di infanzia e una sua fotografia in Egitto, seduto su un cammello di fronte alle piramidi. Quante volte ripeté la sua storia egiziana... a sei anni, mio padre mi diede la prima macchina fotografica: era una Kodak molto, molto economica. Io iniziai a fotografare tutti i posti dove andavo con lui: nei campi e in tanti altri luoghi. Fu così che mio padre portò a stampare alcune fotografie che poi portai in classe. Divenni il ragazzo più popolare della mia classe. Mi resi conto che la classe era interessata a me e alla mia vita grazie alle fotografie. Allora avevo sei anni adesso ne ho 43.
Ci fu un momento in cui dovetti scegliere se andare con un genitore in un magnifico luogo caraibico oppure nella giungla. Mia madre fu sorpresa che alla spiaggia caraibica preferissi la giungla dove non ero mai stato. Questo sono io oggi così come a sei anni! Sono cresciuto vicino alla montagna, camminando in montagna attraversando il fiume dove io amo nuotare, sin da quando ero molto giovane. La relazione con la natura risale alla più tenera età.
Quando hai deciso di diventare fotografo professionista?
È un po' complicato, perché i miei genitori desideravano che io “fossi qualcuno”. In America Latina c’è sempre questa idea. Ma da noi il rischio della povertà, di ritornare poveri non ci lascia mai. Il sogno è quello di avere un figlio architetto, medico, ingegnere… Così quando dissi a mio padre che volevo diventare un fotografo lui è andato fuori di testa. Alla fine ho studiato giornalismo e comunicazione. La scuola di giornalismo era molto focalizzata sulla fotografia e avevo un’insegnante fantastica: Adriana Villegas, dove vivevo nella piccola città di Manizalis in montagna. Ho iniziato a lavorare come fotografo per i giornali locali e ci fu un momento in cui avevo così tanto lavoro fotografico che non riuscivo a frequentare la scuola e così decisi di fare il fotografo.
Il mio primo importante lavoro fotografico fu sulle “urban gangs” in Medellín in Colombia. Ho iniziato il progetto sulle gangs verso il 2009 mentre prima ero stato fotografo per alcuni giornali nazionali.
Mi resi conto che il fotogiornalismo sempre concentrato sulle “daily news” non mi emozionava. Così quando ho iniziato a documentare le “gangs” ho sentito di avere una prospettiva diversa, più attenta all’aspetto umano. E così li convinsi a farsi fotografare nella loro vita quotidiana e a non uccidermi. E' stato molto impegnativo e ho trascorso anni a documentarli.
Per più di 10 anni tu hai fotografato i guerriglieri delle FARC nella giungla della Colombia, documentando la loro vita quotidiana durante gli anni degli accordi di dialogo con il governo; le marce, le tensioni, le relazioni amorose, i disaccordi, la deposizione delle armi, alcuni dei risultati del processo di pace e il loro inserimento nella vita civile. È stato quindi difficile, ma ciò che emerge dai tuoi lavori è il fatto che non giudichi la realtà che riprendi.
Cerco di vedere il lato umano delle persone. Un membro di una gang è un essere umano: un ragazzo, un amico, un marito, un figlio, un fratello... Sai? Non è solo un sicario. Quindi è un sicario ma anche molte altre cose. E cercare di affrontare la complessità umana è stato molto importante per me fin dall'inizio cercando di trascorrere del tempo con loro, senza giudicarli. Perché la domanda non è: perché lo fai? Ma comprendere la struttura sociale. Da lì ho iniziato un altro progetto chiamato Verde. Il mio lavoro sui guerriglieri – uno dei più grandi e più antichi gruppi di guerriglia del mondo – è stato lungo ed il mio metodo è stato esattamente lo stesso usato per le “Gangs”. Cercare di affrontare la complessità umana è stato molto importante per me fin dall'inizio cercando di trascorrere del tempo con loro, senza giudicarli.
E pensare che il Darién scatenò la fantasia di Salgari con “Gli ultimi filibustieri” attingendo alle imprese dei veri pirati che dal Perù trasportavano oro e argento. Forse già allora erano le storie d’amore a nascondere l’umanità già devastata da sete di potere e di ricchezza.
Note
[1]Federico Rios Escobar è un fotoreporter colombiano che si occupa di questioni sociali in America Latina. Il suo lavoro ampiamente pubblicato ha coperto il conflitto armato in Colombia, l'ambiente e il suo rapporto con la società. Le sue prime mostre includono The Signature of Los Rios al Video Guerrilha di San Paolo, Brasile (2013), e Transputamierda al Valongo International Photography Festival di Santos, Brasile (2016). Nel 2017, Federico ha presentato il suo lavoro sulle FARC, il gruppo armato colombiano, al LaGuardia Community College, New York; al festival fotografico di Kaunas, Lituania; e al festival Unseen Amsterdam.
Recentemente ha vinto nel 2022 il Prix Pictet e nel 2023 l’Humanitarian Visa d’Or dell’International Committee of the Red Cross (ICRC) con il lavoro svolto nel Darién Gap intitolato “Percorsi di speranza disperata”. Nel 2012, il libro fotografico di Federico La ruta del cóndor (La via del condor) è stato pubblicato congiuntamente dall'Universidad Jorge Tadeo Lozano di Bogotá e dall'Universidad de Caldas. L'anno successivo pubblica Fiestas de San Pacho, Quibdó, insieme al collettivo fotografico Mas Uno. Il suo libro fotografico più recente è VERDE, pubblicato da Raya nel 2021. Il suo lavoro è apparso frequentemente sul New York Times e su altri media tra cui Stern, GEO, Time, Paris Match e LFI Magazine. È membro del comitato curatoriale del progetto Instagram @everydaymacondo.
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