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"Attacco all'Europa", e non si tratta di un film hollywoodiano

Stefano Marengo

di Stefano Marengo


All’indomani delle elezioni presidenziali qualcuno aveva coltivato la speranza che settori dell’élite economico-finanziaria americana fossero così illuminati da schierarsi contro Trump. Che si sia trattato di una pia illusione lo hanno perfettamente illustrato le schiere di magnati che, negli ultimi due mesi, si sono recate a Mar-a-Lago per "rendere omaggio" al nuovo presidente e, da ultimo, la presenza in prima fila, all’Inauguration Day, di personaggi come Zuckerberg, Bezos e altri miliardari al seguito dell’onnipresente Elon Musk.

Per la verità tutto ciò non dovrebbe destare alcuno stupore visto che da sempre gli alti papaveri del capitalismo eccellono nella ginnastica dei riposizionamenti politici. Del resto, business is business, e se vuoi fare affari in grande è necessario giocare di sponda con la presidenza USA, poco importa chi sia ad occuparla. Ogni valutazione etica non ha per principio alcun diritto di cittadinanza in tale contesto.


La strategia di Trump

D’altra parte, l’imbarazzo dei Paperoni che avevano sostenuto Kamala Harris e oggi giurano fedeltà a Trump è stemperato dal fatto che, sui temi che davvero contano tra democratici e repubblicani non c’è alcuna differenza sostanziale. La strategia di fondo e i risultati attesi sono gli stessi, a cambiare sono soltanto tattiche e tempistiche. Semmai, nella sua sguaiatezza, Trump ha almeno il merito di dire senza tergiversare che cosa intende ottenere e ci evita la fatica di scavare tra i non detti (cresciuti con Biden) del bon ton liberal.

Che cosa aspettarsi, dunque? Rinviato a data da destinarsi il confronto diretto con la Cina – cosa che Washington oggi non può in alcun modo permettersi – l’obiettivo è quello di un rilancio degli USA attraverso la concentrazione di nuova ricchezza nel paese, ed è qui che entrano in campo i magnati americani come strumenti e destinatari di nuova accumulazione di capitale.

Rimane tuttavia un problema di fondo, cioè che gli Stati Uniti, con un tessuto produttivo disastrato e una bilancia commerciale in profondo rosso da quasi mezzo secolo, non hanno la capacità di produrre in patria la ricchezza che desiderano. L’unica alternativa, almeno nel breve e medio periodo, è quindi andarla a prelevarla altrove, e questo altrove è l’Europa.

A partire dalla prima amministrazione Trump e poi, più chiaramente, sotto la presidenza Biden, si sono tracciate le linee guida di quello che finalmente emerge come un grande piano di attacco economico-finanziario al Vecchio Continente. Le prove che tale sia la strategia della Casa Bianca sono ormai tante e più che cogenti. La prima riguarda i temi energetici e della difesa: isolata dalla Russia per volere di Washington e quindi priva di forniture di gas a buon mercato, l’Europa si trova oggi costretta ad acquistare il costosissimo gas liquefatto a stelle e strisce, con esiti depressivi sull’industria continentale; contestualmente, l’insistenza della Nato sulla necessità del riarmo renderà quello europeo (inevitabilmente) un mercato di sbocco ideale per le major dell’industria bellica statunitense. In entrambi i casi, somme consistenti di denaro lasceranno l’Europa per approdare oltre Atlantico senza aver generato, qui da noi, ritorni di alcun tipo in termini di servizi e beni durevoli.


Dazi: nel mirino l'industria tedesca

La seconda prova concerne la politica dei dazi, già presenti in diversi settori, ma che saranno ampliati e rafforzati dalla nuova amministrazione. Per l’Europa nel suo complesso, esportatrice netta nei confronti degli USA, ciò costituirà un ulteriore fattore di perdita di ricchezza nei confronti degli americani, che nel frattempo tenteranno, probabilmente in maniera velleitaria, di avviare una politica di sostituzione delle importazioni. Ciò che va sottolineato, comunque, è che non tutti i paesi europei subiranno le stesse ricadute: le conseguenze peggiori delle nuove politiche daziarie USA saranno pagate innanzitutto della Germania, ormai ex locomotiva industriale d’Europa, e in subordine da tutti quei paesi, non ultima l’Italia, che hanno ancora un significativo tessuto manifatturiero, in parte legato proprio all’industria tedesca.

È qui che diventa evidente la terza prova, ossia la sempre più marcata penetrazione delle big three statunitensi della gestione patrimoniale – BlackRock, Vanguard e State Street – nel mercato europeo. Trump, anche in questo caso, non farà altro che proseguire una strategia già elaborata e avviata da Biden, e con un duplice obiettivo. Da un lato, infatti, attraverso l’azione dei fondi di investimento, gli USA intendono impadronirsi dei principali asset industriali del Vecchio Continente, cosa che diventa tanto più praticabile quanto più si approfondisce la crisi dell’industria europea. Ciò comporterà non solo, di nuovo, lo spostamento di ulteriore ricchezza verso gli Stati Uniti, ma anche l’estensione della base produttiva a diretto controllo americano in vista del prevedibile scontro con la Cina.

D’altra parte, la crisi dell’industria si tradurrà in una riduzione del gettito fiscale per i paesi europei, che nel medio termine si troveranno costretti, se non a privatizzare integralmente molti dei servizi ai cittadini, quantomeno a dare più spazio ai privati. Pensiamo, per esempio, al capitolo dei servizi alla persona, a partire dai servizi sanitari, oppure al tema delle pensioni: con il ridimensionamento dei bilanci pubblici diventerà inevitabile concedere maggiori margini di manovra a imprese sanitarie, assicurazioni e fondi pensionistici privati che già oggi, nella maggior parte dei casi, sono riconducibili proprio alle big three statunitensi. Il cerchio si chiude, quindi, con il prelievo di ricchezza direttamente dalle tasche dei cittadini europei a vantaggio della finanza americana.


Finanza e politica a braccetto

Quello a cui assisteremo è il tentativo americano di sfuggire al proprio declino da iperfinanziarizzazione non già attraverso l’elaborazione di un nuovo modello di sviluppo più sostenibile, ma attraverso l’estensione del dominio finanziario ad aree geografiche e a settori che, almeno in parte, ne erano stati finora esenti. A prendere corpo, in altre parole, è una sorta di neoimperialismo che ha alla sua base l’alleanza tra il grande capitale finanziario e il potere politico-militare di Washington. La novità odierna è che tale alleanza non prende di mira, come in passato, il sud del mondo, ma prioritariamente i suoi stessi alleati europei.

Dal basso verso l’alto e dall’Europa agli USA: la politica di “ridistribuzione” della ricchezza pianificata alla Casa Bianca si articola secondo questo duplice movimento. Vale la pena ribadire, in ogni caso, che non si tratta di una politica che ha in Trump l’artefice esclusivo. Qualora Harris avesse vinto le elezioni, infatti, a mutare sarebbero state unicamente le tattiche relative alla sua attuazione, in linea con quanto fatto da Biden, non certo la strategia complessiva.

A stupire (o forse no) è invece la pressocché totale acquiescenza europea, quasi come se le nostre classi dirigenti non avessero chiaro davanti agli occhi il programma di Washington o, peggio, avessero deciso di assecondarlo. E così nei giorni scorsi abbiamo assistito alle dichiarazioni di Ursula von der Leyen che apriva all’ulteriore incremento delle importazioni di gas liquido americano, dichiarazioni a cui ha fatto eco la nuova rappresentante per la politica estera dell’Unione, l’estone Kaja Kallas, che dando prova della sua nota russofobia ha sostenuto la necessità per tutti gli stati membri di aumentare le spese militari e prepararsi alla guerra contro Mosca. Il suo discorso, più che un programma fondato sulla ponderata valutazione degli interessi europei, in cui dovrebbe comparire un progetto di politica estera comune e di conseguenza un modello di difesa condiviso, è parso a tratti quasi la presentazione degli obiettivi commerciali delle corporations che costituiscono l’apparato militare-industriale statunitense. A ciò si aggiunga, infine, che né oggi, né negli anni passati l’Unione europea ha sviluppato una seria controstrategia per rispondere alla penetrazione dei fondi di investimento americani.


Le scelte eccentriche di Palazzo Chigi

Le cose non vanno meglio a livello dei singoli stati, con l’Italia che pare addirittura voler precorrere i tempi, basti pensare all’idea, affacciatasi in sede di discussione della legge di bilancio 2025, di rendere obbligatorio per i lavoratori il trasferimento ai fondi pensione di almeno una parte del TFR. Al di là di questo, Giorgia Meloni sembra essersi ritagliata il ruolo di testa di ponte europea delle politiche della nuova amministrazione Trump, per cui è probabile che l’Italia si presterà a essere laboratorio della loro attuazione e, contemporaneamente, vettore per la loro trasmissione agli altri paesi europei. Operazione comunque diversa, se non altro per il contesto storico, da quella che vide un'Italia in ginocchio, sconfitta e lacerata, optare per l'influenza americana nel 1947 con il Piano Marshall e due anni dopo con la partecipazione nella Nato. Che dire se non che si tratta di scelte piuttosto eccentriche per chi è andato a Palazzo Chigi con la promessa di indipendenza e sovranità nazionale?

In termini più generali, e a prescindere dal ruolo che l’Italia vorrebbe o meno giocare, è preoccupante che le élites politiche del continente non si rendano conto dell’ormai plastica divergenza di interessi tra USA ed Europa – o, se se ne rendono conto, è a maggior ragione preoccupante l’assenza di idee e prospettive per intraprendere una strada diversa, ossia capace di intercettare l’interesse nazionale autentico di ciascun paese europeo.


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