Giappone, emozioni che si rivivono nella mente e nel cuore
di Mariella Fassino
Andiamo alla scoperta del Giappone, all'incrocio di itinerari inconsueti, affidandoci alla curiosità e alla passione e, dopo il noleggio di un van, si parte alla volta del Nord, tre ore di auto da Tokyo. La prima metà del viaggio è occupata dall’attraversamento della città che continua in una periferia sterminata di grattacieli, case, capannoni industriali, strade sopraelevate, automobili in fila, camion. Il traffico è discretamente scorrevole, denso e ordinato. Poi cominciano i campi, le risaie, i fitti boschetti di bambù che paiono la “cifra” paesaggistica del Giappone, intervallati da villaggi di piccole case con il tetto a tegole Kavara che sono leggermente concave o cilindriche, per lo più grigie, nere, talvolta azzurre. L’orografia lentamente cambia e la strada inizia a correre tra bassi rilievi fitti di alberi, ecco le prime macchie di neve in un tardo febbraio, mentre le alture diventano montagne a cono che movimentano i brevi altipiani coltivati a riso.
I villaggi ora sono fatti di case di legno, talune a colombaia con le travi murarie a vista che incorniciano pareti di materiale povero, paglia, malta, pietrisco, altre di assi orizzontali marroni o grigio scuro, quasi tutti gli edifici hanno tradizionali finestre a scorrimento, i vetri sottili solcati da numerose liste orizzontali e verticali.
Le risaie tra le case si infittiscono, sono campi rettangolari, ben delimitati e marezzati da ampie distese di neve. I rilievi, i piccoli altipiani sono solcati da giganti, i tralicci dell’alta tensione, uniti tra loro dai cavi che portano elettricità da una prefettura all’altra del paese e che non ti aspetteresti di vedere così numerosi in un paesaggio montano, elettrodotti imponenti che incombono scavalcando vallate, rilievi, altopiani.
Sì, perché l’energia delle città che si accendono di luci al tramonto o le illuminazioni, il riscaldamento di queste piccole case e la forza per far funzionare i numerosi capannoni industriali sono in larga parte alimentate dall’atomo. 42 reattori nucleari forniscono l’energia per questo paese popoloso, industrioso, efficiente che si è dato l’obiettivo di raggiungere emissioni zero entro il 2050. Il governo Kishida tuttavia, in controtendenza con le politiche green e nonostante l’esperienza amara di Fukushima, spinge l’acceleratore verso l’energia nucleare, così sono in costruzione 2 nuovi reattori di tipo ABWR. Lo sfruttamento dell’eolico offshore e dell’energia marina con la potenza delle correnti oceaniche che circondano il paese, sono progetti ancora lontani nel tempo, decenni, tanta attesa per un paese altamente energivoro.
Siamo nella prefettura di Niigata, ci stiamo avvicinando alla città di Tokamachi, la nostra meta, famosa per l’antica tradizione della produzione, lavorazione, commercio della seta e per il riso che fermentato con l’acqua qui da origine a una fiorente industria del saké. La città di 70.000 abitanti è gemellata dal 1975 con Como grazie alla antica tradizione tessile che si rinnova nella confezione di Kimoni dalla raffinata fattura, è anche un importante centro turistico e culturale che d’inverno ospita il festival della neve animandosi di numerose sculture di ghiaccio e neve. Le autorità di Tokamachi, attente alla promozione di iniziative culturali e artistiche, seguendo l’attivismo artistico di Fram Kitagawa, un gallerista eccentrico e innovativo, si sono attrezzate per realizzare una lodevole iniziativa: l’Echigo Tsumari Art Field che vede la collocazione di decine di opere d’arte nel capoluogo e nei villaggi circostanti. Seguendo il detto giapponese “Seiko Udoku; Kako Todoku” che tradotto suona come “in estate coltiva i campi, in inverno coltiva la mente”, la città e i suoi dintorni propongono nella stagione invernale, esposizioni permanenti e mostre temporanee di artisti contemporanei, performances e spettacoli.
Siamo diretti verso una delle numerose attrazioni artistiche permanenti collocate nei dintorni di Tokamachi e già dal nome si preannuncia l’importanza dell’elemento luminoso nella sensibilità artistica di questo paese: la Casa della luce. La natura, l’uomo, le sue opere il loro dialogare creando un ambiente, un clima sensoriale e percettivo inconsueti sono fattori che ricorrono nella cultura del Giappone. Impareremo, dalla nostra esplorazione artistica che il rapporto con questi elementi non è mai scontato e che i nostri sensi, qualche volta ci ingannano e sempre ci restituiscono una realtà che è una costruzione della mente.
Per andare alla Casa della Luce devi prenotare in largo anticipo, potrai così entrare dentro un’opera artistica che è anche una tipica casa giapponese, viverci per un giorno e una notte, sperimentare il gioco e l’inganno delle luci e dei tuoi occhi.
Arriviamo verso le 16,30 posteggiando il nostro van a breve distanza dalla casa che è isolata, circondata da un fitto boschetto innevato. Sbrighiamo le formalità del cech-in con la guardiana del luogo in un piccolo edificio antistante, la signora ci spiega regole e funzionamento della casa e prendiamo possesso del nostro spazio.
Dall’esterno i tetti sono a più spioventi, alla sommità sui due superiori ce ne sono altri due che li ricoprono parzialmente e che impareremo, possono scorrere orizzontalmente, poco più in basso il secondo tetto a quattro spioventi conferisce alla casa il tipico aspetto giapponese. Un’ampia scala esterna ci conduce al primo piano, dove si sviluppa la parte abitabile. Esploriamo un po’ eccitati, molto incuriositi questo spazio domestico che pare uscito dall’iconografia tipica di un edificio giapponese. Stanze vuote, ma confortevoli, pareti e finestre mobili, scorrevoli che custodiscono armadi con il corredo per la notte, pavimento di stuoia che invita a sdraiarti, due grandi ambienti al piano superiore, nel principale avrà luogo la nostra esperienza artistica, in quello più piccolo che sarà la nostra sala da pranzo per la sera, l’immancabile porta scorrevole nasconde un’angolo cottura ben attrezzato, affacciato sul boschetto che comincia ormai a essere circondato dalle ombre della sera.
Il palcoscenico della nostra esperienza artistica è il soffitto della stanza principale, la guardiana ci spiega che alle 17 e 45, dopo alcuni bip sonori brevi e discreti il centro del soffitto nella stanza principale lentamente si aprirà, il tetto di legno scivolerà orizzontalmente fino a scoprire un quadrato di cielo. La signora spera che non nevichi, in quel caso sarà necessario richiudere il tetto e ciò renderà impossibile il compimento della performance. Stendiamo sul pavimento della stanza principale i futon che erano custoditi negli armadi a muro, qui troviamo anche dei piumini e sotto la loro morbida coltre ci disponiamo supini al centro della stanza.
Ci troviamo al centro di un’opera artistica di James Turrel, poliedrico artista statunitense che concentra il suo lavoro e la sua ricerca sulla percezione della luce e dello spazio. Laureato in psicologia e arte, precoce pilota di aerei, porta nelle opere l’interesse per la psicologia della visione e mette al centro della sua osservazione il cielo. Collabora al movimento Light and Space lavorando con la luce artificiale e naturale e con la percezione o l’annullamento della profondità di campo nella visione. La tavolozza scelta da Turrel nella casa della luce è data dall’illuminazione artificiale che si accende nella stanza e che cambia di colore e intensità nel corso della performance. Colori accesi un po’”psichedelici”: rosa shocking, rosso, arancio, azzurro, violetto, blu, verde brillante, grigio, grigio-marroncino, grigio rosato ogni tono vira impercettibilmente al colore successivo. La luce cangiante colpisce il soffitto in cui è ritagliato un quadrato di cielo ora scoperto per lo scorrere del tetto verso un lato.
Dalla nostra posizione supina concentriamo la visione sul cielo incorniciato dai colori accesi del soffitto e assistiamo a una singolare esperienza percettiva. La profondità di campo si annulla completamente, le tinte del cielo e del soffitto nette e forti prendono una consistenza densa, materica, si appiattiscono in una geometria semplice: il quadrato e la sua cornice che cambiano numerose volte di colore e intensità nel corso della sera.
Il colore del cielo al tramonto, nella serata che minaccia neve, appena solcato da nuvole chiare vira dalla luce all’oscurità della notte, diventa compatto: azzurro, grigio chiaro, poi scuro, blu di Prussia, petrolio, cobalto, blu Klein, la sua cornice, il soffitto circostante rosa, rosso nelle sue varie tonalità, arancio, grigio, poi viola con sfumature date dal rosso e dal blu che mescolandosi fanno vinaccia, malva, pervinca, ametista, fucsia, indaco, lilla, lavanda. Poi arriva il verde che è petrolio, acqua, oliva, salvia, turchese, acido, militare e ancora il blu. I colori del quadrato di cielo e del suo contorno si alterneranno nei 70 minuti successivi all’apertura del tetto in un caleidoscopio piatto e denso, con un effetto “pantone” che ricorda il gioioso catalogo di colori racchiuso nella famosa mazzetta degli imbianchini.
Al termine della performance, prima che il tetto di legno scorra sopra di noi e si richiuda, sentiamo il viso che si bagna con piccoli fiocchi di neve, li vediamo scendere dal quadrato del soffitto. Nella loro traiettoria verticale le bianche strisce che cadono dal cielo ormai nero restituiscono tridimensionalità alla visione riportandoci alla consuetudine di un mondo fatto di sfumature e prospettive. Assistere alla rappresentazione di una realtà come non ce la aspettiamo è un’esperienza singolare, andiamo con la mente a ciò che abbiamo visto e alla poliedricità di quest’opera che muta con il mutare del tempo atmosferico, ci chiediamo come sarà in una notte stellata d’estate, o in un infuocato tramonto, in una tersa serata primaverile o con un cielo di cirri e cumuli.
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