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Alle radici del moderatismo: ritorniamo a ragionare

di Emanuele Davide Ruffino e Gian Paolo Zanetta



In politica, come in tutta la società, si assiste da tempo a una preoccupante mancanza di capacità nell’affrontare i problemi senza posizioni preconcette e con la disponibilità culturale a capire le ragioni di chi la pensa diversamente.

Dai conflitti familiari o di condominio (gli ambiti in cui maggiormente si ricorre alle vie giudiziarie) ai conflitti internazionali, manca quell’innata capacità di mediazione in grado di ricomporre situazioni di astio che dovrebbe contraddistinguere tutte le persone civili (o anche solo dotate di buon senso).

 

Il fascino degli estremismi

La tendenza ad assumere posizioni moderate è frutto di un evoluzione sociale maturata nel corso degli ultimi decenni con il venir meno dei grandi “sogni” che hanno caratterizzato il dopoguerra (dalla ricostruzione di un’Europa devastata e distrutta, all’avvio di processi d’integrazione, come l’ONU, e di unificazione come l’UE) e dall’elaborazione di ideologie che sapevano offrire un’interpretazione globale di tutta la società e che trovavano nell’elaborazione politica, sia una capacità di raccogliere consensi, sia piattaforme culturali per confrontarsi dialetticamente con possibili alternative (se non si hanno delle idee è difficile avviare scambi con la controparte).

La caduta dei blocchi contrapposti ha comportato un riavvicinamento delle diverse posizioni politiche, tant’è che oggi si parla sempre più sovente di ricerca identitaria, nella sua forma di senso di coscienza, anche collettiva, della propria individualità e personalità, cui quasi si contrappone la degenerazione delle motivazioni che portano solo a ricercare la propria sopravvivenza politica. 

Mancando di idee e di presupposti ideologici, il confronto politico si trasforma in un mero esercizio di critica nei confronti dell’avversario: se si esamina una qualsiasi testata giornalistica ci si accorge come gli articoli “contro” superano di gran lunga, per spazio e intensità, quelli propositivi. Atteggiamento dettato da una mancanza di cultura politica e sostenuto da un gradimento nell’opinione pubblica che vede nello scontro, più che nel confronto, un motivo per appassionarsi al dibattito. Il contrario di quei comportamenti politici volti a raggiungere gli obiettivi attraverso un metodo graduale, che eviti le trasformazioni violente e rifugga dai mutamenti radicali, tanto affascinanti quanto inconcludenti. La politica, in una società che va sempre più a differenziarsi, deve esercitare un’azione di sintesi delle diverse istanze per giungere ad un governo della società in una logica di umanesimo sostenibile.

 

La rissosità fa audience, ma …

Se identità è qualcosa in cui noi ci riconosciamo e che sentiamo nostro, a livello collettivo può diventare ciò che ci fa riconoscere dagli altri (dai tatuaggi delle tribù primitive, al riconoscersi in articolati pensieri filosofici). In politica, quest’ultimo aspetto sta prendendo il sopravvento, ma non avendo basi solide (il cambio di casacca dei personaggi politici è cresciuto esponenzialmente) il tutto si riduce a porre un tatuaggio virtuale che trova maggiore visibilità nel concentrare l’attenzione verso l’avversario. È successo così in Francia dove più che proporre soluzioni ci si è concentrati nel fermare la controparte e rischia di ripetersi negli USA, dove si sono messe in evidenza le bugie di Trump più che a contestarne i programmi che comunque fanno presa su un certo elettorato (ha fatto notizia l’impennata della raccolta di fondi dopo il ritiro di Biden, ancor prima che si conoscesse, il suo successore, ma altrettanto è accaduto negli ultimi giorni alla sua antagonista Kamala Harris, che ha raccolto oltre 200 milioni di dollari di donazioni).

La presunzione di aver ragione porta ad accentuare gli scontri predisponendo “macchine sfornatrici di insulti” (più che di critiche) che, se si va a rileggere la Storia d’Italia, da Giovanni Leone, al presunto bacio di Giulio Andreotti ad un capomafia, alle accuse più strane per distruggere personaggi eletti con un affluenza superiore al 90 per cento fino agli anni ’80, che si è pressoché dimezzata ai giorni nostri. Se ci sono meno persone che votano è più facile condizionarne il comportamento e i piccoli gruppi di pressione acquisiscono maggior peso (e a qualcuno questo fa comodo, ma non aiuta ad affrontare le sfide internazionali che le sempre più frequenti aggressioni militari alle democrazie occidentali, imporrebbero con urgenza).

Attaccare ed insultare l’avversario fa perdere voti (pur rischiando di attribuirgli notorietà e ribalta), ma non aiuta più di tanto “l’insultatore” a guadagnare consensi o, peggio, se riesce a vincere, poi fatica a trovare unità di azione con gli altri interlocutori. Il problema non è partitico, nel senso d’individuare una formazione che non faccia dell’insulto la sua arma politica, ma un atteggiamento culturale propositivo: negli Stati Uniti i partiti sono sempre gli stessi, ma il livello del dibattito si è fatto via via più astioso e il ritiro di Biden, accorciando i tempi della campagna elettorale rischia di accentuare ulteriormente questa situazione.

 

 

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