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Michele Ruggiero

Aldo Agroppi, un addio in punta di piedi (buoni)

Aggiornamento: 9 minuti fa

di Michele Ruggiero


Il suo più grande rimpianto, condiviso con altri granata, in primis Angelo Cereser, era stata la cessione l'anno prima dello scudetto con Gigi Radice. Una piccola grande ferita per il "cuore granata" di Aldo Agroppi, che il tricolore l'aveva sfiorato nella stagione '72-'73, con Gustavo Giagnoni in panchina e lui autore di una doppietta a Bologna all'ultima giornata, quella che aveva deciso il primato alla Juve su Milan e Toro per appena un punto. Aldo Agroppi, calciatore di professione mediano, allenatore, opinionista, è morto nella sua Piombino, dove era nato il 14 aprile del 1944, ad otto mesi di distanza dalla grande battaglia combattuta tra italiani in armi contro i tedeschi, all'indomani dell'8 settembre, in quella che rimane una delle pagine più superbe e coraggiose espresse dall'esercito italiano.

Toscano di "scoglio", una differenza non lieve nella terra dei campanilismi esasperati, dalla lingua pungente e mai refrattario alla polemica in campo e fuori, era arrivato al Toro nel 1967 e subito si era imposto nella formazione titolare proprio nell'ultima partita che aveva segnato dalla morte prematura di Gigi Meroni, la farfalla granata, domenica 15 ottobre 1967. C'era anche Aldo, con il numero cinque, al suo esordio in campionato, quella domenica al Comunale di Torino, quando la squadra allenata da Edmondo Fabbri, appena riabilitato dopo il disastro contro la Corea del Nord ai campionati mondiali in Inghilterra nel 1966, batteva la Sampdoria 4 a 2, con tre reti di Nestor Combin, l'ex bianconero franco-argentino che si sarebbe ripetuto nuovamente con una tripletta sette giorni dopo, in una domenica autunnale di sole smagliante, la prima senza la farfalla granata, quella famosa del 4 a 0 rifilato alla Vecchia Signora nel derby della Mole.

Polemicamente sanguigno Agroppi lo è stato anche al limite dell'irragionevole, come quando il 26 marzo del 1972, la domenica del derby deciso proprio da un suo goal, apostrofò con rabbia l'allenatore bianconero Vycpalek, "colpevole", disse a taccuini aperti, di aver sottovalutato alla vigilia il suo Toro reduce da due sconfitte e convinto che avrebbe incappato anche nella terza.

E il temperamento l'avrebbe tradito anche nella domenica del 17 febbraio 1974, coinvolto in una rissa tra tifosi e giocatori, nel mezzo di una stagione compromessa da dissidi negli spogliatoi e screzi con il tecnico Giagnoni, sostituito alla 19esima giornata da Edmondo Fabbri, al suo ritorno in granata. In quella circostanza, Aldo Agroppi, dal suo rifugio di Piombino, avrebbe rilanciato una frase che sarebbe diventata ricorrente negli anni successivi, anche da allenatore, in momenti di crisi esistenziale e di sconforto: "Abbandono il calcio. Chiudo. A Piombino ho di che vivere".

Invece, ricominciò una seconda carriera calcistica da dopo aveva concluso da calciatore, nel Perugia, con le squadre giovanili della società umbra. Erano poi seguite Pescara, Pisa, Padova, ancora Perugia per tre stagioni, Fiorentina, Como, Ascoli, nuovamente con i viola nel 1993, l'anno del definitivo abbandono, sofferto per l'esonero e la retrocessione della squadra in serie B. Panchine contrassegnate anche da improvvise e inspiegabili dimissioni e scontri all'ultima parola di troppo verso gli arbitri, come nell'episodio delle offese e tentata aggressione negli spogliatoi all'arbitro Magni, in Reggiana-Perugia, partita vinta dagli emiliani al '93 con un calcio di rigore ai più sembrato inesistente. Uno "sfogo" che in prima battuta il giudice sportivo censurò con sei mesi squalifica.

Un addio da un rettangolo all'altro, dal campo al video, commentatore televisivo che coincise davvero con un'altra vita, un'altra storia, un altro Aldo Agroppi. E a scriverlo dalle colonne de La Stampa, con parole che manifestavano un sincero affetto misto e ammirazione nei suoi riguardi fu Oreste del Buono, commentando il 4 luglio del 1994 gli interventi dei su Rai1 dedicati ai Campionati del mondo di calcio negli Usa, con un titolo che esponeva in toto il pensiero dello scrittore e che ne raccontava in appena diciassette lettere la fama che da tempo lo precedeva: "L'Agroppi che ragiona".

Di Agroppi, che era stato tutto, giocatore, l'allenatore, il commentatore, "segnalandosi per la sua irruenza", Del Buono aggiunse che "come commentatore aveva suscitato scandali e scalpori per la pericolosa caratteristica di non star troppo a pesare le parole prima di dirle". Ma in quel dialogo televisivo con Fedele La Sorsa, apparve i telespettatori scoprirono un Agroppi inedito nel commentare l'assassinio del nazionale colombiano Andrés Escobar Saldarriaga, ucciso a Medellin due giorni prima, per essere stato protagonista dell'autogol che aveva condannato la Colombia all'eliminazione dai Mondiali nella decisiva partita con gli Usa. In quella esplosione di violenza - sei colpi di rivoltella - non era stato certo l'amore di patria a decidere della sorte di Escobar (nome dal destino obbligatorio in Colombia), bensì le grandi perdite subite dai narcotrafficanti nel giro di scommesse clandestine. Ebbene, come notò l'ex direttore della rivista Linus, "Aldo Agroppi ha commentato la notizia in un modo che ha sorpreso in lui. Con dolcezza addirittura, dichiarando che erano stati buoni con lui a Firenze, chissà cosa avrebbero dovuto fargli. [...] Ad Aldo Agroppi è capitata questa brutta faccenda, ma la sua riapparizione in televisione è stata in meglio. La vivacità toscana c'è sempre. Ma c'è anche una consapevolezza diversa. Si ha l'impressione che ora, prima di buttar fuori la sua battuta, ci pensi per una frazione d'attimo in più. Sarà deluso chi da lui si aspettava la rissa, la corsa alla vendetta. Ma, invece, abbiamo guadagnato un uomo che parla del calcio con assoluta competenza, e, tuttavia, non vive del calcio come se fosse l'unica ragione della vita".

Oggi abbiamo perso quell'uomo.

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