Affetti pubblici...zzati e privati nel tritacarne dell'informazione
di Laura Pompeo
“Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia è infelice a modo suo”: non si può non concordare con il grande romanziere russo Lev Tolstoj. Di qui prende corpo una rapida riflessione sulle questioni affettive della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, questioni diventate di dominio pubblico mano mano che il suo legame si affievoliva e si increspava di contraddizioni nelle dichiarazioni pubbliche soprattutto in versione maschile, circostanza non credo frutto della casualità, come abbiamo avuto modo poi di constatare con la separazione dal suo compagno Andrea Giambruno. Una rottura comunicata via social che non poteva non saturare giornali e piccoli schermi.
Ora non discutiamo qui della cronaca, né del compendio di volgarità e idiozie che sono state le frasi di “Giambrunasca” nei fuori onda di “Striscia la notizia”. Non parliamo neppure delle ricadute sul piano professionale a Mediaset delle sue profferte alle colleghe a mo' di Casanova casareccio, de noantri. Né ci soffermiamo troppo sull’obbligatorietà della scelta, con gran dose di sofferenza di Giorgia Meloni nei confronti del padre di sua figlia (scelta drastica molto apprezzata dalle donne, che vi vedono il proprio riscatto da gesti irrispettosi di certi compagni inadeguati).
Se avesse tentato di risolverla in casa, la presidente del Consiglio ne sarebbe uscita politicamente indebolita. Dapprima ha cercato di tenere le cose il più possibile al riparo. Poi lei stessa, con grande dignità, ha comunicato sui social la separazione da una persona indifendibile. Sacrificio e solitudine da sempre riguardano chi ha il potere: le vicende personali certamente sono state logoranti, ma Meloni ha sempre ben gestito le proprie difficoltà: questo le viene riconosciuto da una popolarità ulteriormente ingrandita.
Vogliamo però riflettere su come l’affaire Giambruno fotografi la promiscuità in politica (e non solo) delle sfere del pubblico e del privato, fino a qualche decennio fa indubitabilmente distinte. All’inizio della Repubblica, i cittadini non sapevano quasi nulla della vita privata dei leader. E quel poco non incideva per nulla sulle scelte alle urne. Niente si sapeva della moglie del leader della Democrazia Cristiana Alcide De Gasperi o del capo del Partito comunista italiano Palmiro Togliatti (ad eccezione della sua storia d'amore con la giovane Nilde Iotti, sollevata dai rotocalchi dell'epoca, anni Quaranta-Cinquanta, per screditare in forma scandalistica più che il politico in sé, l'ideologia) oppure, arrivando agli anni Settanta-Ottanta, di Enrico Berlinguer, l'ultimo grande segretario generale del Pci che alla domanda di un giornalista che sembrava lambire la sua vita privata, lo invitò a rivolgersi all'ufficio stampa. I leader erano discreti e attenti alla loro privacy. E l’informazione si fermava alla porta di casa.
Nel nostro paese, l’indiscrezione comincia a essere sdoganata negli anni ‘80: ricordiamo per esempio la fotografia nel luglio del 1988 pubblicata sul Venerdì di Repubblica del bacio di Occhetto alla moglie Aureliana Alberici. Da lì è stata cavalcata una progressione. Ed è diventato un fatto culturale molto ampio e, naturalmente, anche politico. Ma il processo era cominciato, ideologicamente, vent’anni prima, a partire dal ‘68, quando il privato doveva essere pubblico e politico.
Via via in Italia le tv private e quasi trent'anni di politica berlusconiana ci hanno plasmati. Poi le tecnologie ci hanno consentito di tutto. Tra pubblico e privato non c’è soltanto troppa commistione: nel voyeurismo social coincidono proprio. Cosi abbiamo anche cominciato a giudicare i protagonisti della politica per la loro vita privata. Vita privata che loro stessi hanno scelto di esibire: per accaparrare più consensi e popolarità - e per narcisismo -. La funzionalità dell’immagine è determinante: a questo scopo, essere showman è un requisito indispensabile.
Con l’ossessiva ripetizione degli oggetti d’uso quotidiano, Andy Warhol suggeriva che la vera democrazia si potesse compiere solo nella società dei consumi, l’unico modello in grado di renderci tutti uguali. La società dei consumi promette a ciascuno quel “quarto d’ora di celebrità” teorizzato dall’artista. Il culto dell’immagine trova il suo veicolo pervasivo d’eccellenza nei mass media. Ieri era il monitor di una TV, oggi - in maniera ancor più virale - è quello di uno smartphone. Warhol aveva intuito che le persone avrebbero misurato il loro valore in base alla diffusione dei propri “simulacri”. Un quarto di secolo fa Giovanni Sartori scriveva che la televisione stava producendo un nuovo tipo di essere umano, l’homo videns, attraverso una metamorfosi che ne investiva la natura stessa.
Nel caso della Presidente del Consiglio, si aggiunge un elemento, ed è il modo in cui oggi si fa parte del mondo dei social network: con il suo post, la Meloni ha voluto autorappresentarsi. Forse anche per paura di essere raccontata diversamente da come voleva. Non è ciò che facciamo tutti con i selfie?
Si è imboccata ormai da molto la strada dell’esibizione e dell’indiscrezione: tornare indietro è possibile? Inoltre, possiamo ancora rivendicare la complessità della parola e della conoscenza a fronte della pura informazione e di diffusa banalità?
Forse questo è anche uno dei punti fermi da cui occorrerebbe ripartire per rifondare la politica. E noi stessi.
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