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Affaire Boccia-Sangiuliano: "Non rassegniamoci a un sistema di disvalori"

di Emmanuela Banfo


Gennaro Sangiuliano e Maria Rosaria Boccia, telenovela di fine estate, pasticciaccio brutto di via del Collegio Romano, dove ha sede il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ennesima pagina di un modo di far politica in spregio ai doveri istituzionali? Questo e altro porta con sé una vicenda che, a parte i risvolti giudiziari, gravi a cui l’ex ministro dovrà rispondere, a parte le considerazioni, poco lusinghiere, su coloro che stanno governando l’Italia, di nuovo propone alla nostra attenzione il grande tema del rapporto donne e potere. E’ questo un aspetto che, al di là delle appartenenze politiche e della triste ripetitività del caso, ahimè non unico nella cosiddetta seconda Repubblica, trapela dai commenti di politici e non e che rischia, o forse già si è imposta, come la cifra conclusiva, quella che archivia il caso ancora prima che magistratura e Parlamento possano dire la loro: lei astuta ammaliatrice che ha sedotto il maschio ingenuo e sprovveduto.

Perché questa è l’immagine della Boccia così come emerge da giornali, televisioni e da quel bla bla social sempre pronto a emettere sentenze ancor prima di capire, indagare, soprattutto ascoltare le diverse voci. Anche l’immagine di lui in lacrime, obiettivamente a dir poco non-attraente, e di lei bionda, bella, profilo da donna fatale, da novella Circe, il colpo d’occhio suggella la storytelling dell’uomo fesso, ma innocente e della donna maliarda e ambiziosa, furba, scaltra. Le parole della premier Meloni al gotha del mondo economico a Cernobbio, sintetizzano questa corrente di pensiero: Maria Rosaria Boccia è rappresentativa di quelle donne che vogliono ottenere spazio nella società senza farsi grossi scrupoli sui mezzi, per dirla con un eufemismo. Astraiamoci nuovamente dal fin troppo facile rilievo che qui il problema non è se sono legittime le aspirazioni di Boccia a un ruolo all’interno del Ministero della cultura, ma che dall’altra parte si sia agito, qui sì senza alcuno scrupolo, ministro in primis. Ma non soltanto lui, perché è impossibile che nessuno vedesse, nessuno sapesse, nessuno abbia avvallato viaggi, note spese e altro.

Il punto, però, sul quale vale la pena soffermarsi, tanto è ridondante, è perché ogni volta, qualunque sia il contesto, la colpa alla fine è delle donne. E quasi sempre le donne in questione sono giudicate avvenenti, ma non brave, non competenti, sono ambiziose e pronte a tutto. In fondo il caso di Harvey Weinstein, il produttore cinematografico molestatore e violentatore seriale, ci porta alle stesse conclusioni. Il leit motiv s’inserisce nella medesima cornice: le attrici, alle prime armi o già affermate, sapevano che cosa poteva loro accadere quando entravano nell’ufficio di Weinstein, quindi hanno messo in conto il rischio e che valeva la pena correrlo per ottenere la parte nel film. Ecco il paradigma ingannatore: il sistema è questo e se ci vuoi entrare ne devi accettare le conseguenze e poi stare zitta. Forse che Maria Rosaria Boccia non sapesse che accompagnarsi con un ministro giorno e notte è come giocare col fuoco? La donna o accetta il gioco e sta in silenzio se si brucia oppure ne rimane fuori. L’idea di cambiare gioco, di scardinarne le regole inique, non viene neppure in mente. Le donne che entrano nelle dinamiche diaboliche del potere lo devono subire e basta. Gli uomini sono arrivisti, temerari, prepotenti, determinati a raggiungere lo scopo, altrettanto devono fare le donne. La politica è l’arte del dominio? Il potere è esercizio di dominio? Le donne ne siano capaci e la storia è piena di donne che come uomini lo hanno esercitato senza scrupoli. Come possono le donne uscire da questo groviglio, da questa gabbia che chiede adattamento, omologazione? Cambiando il paradigma: il potere è servizio, la politica l’arte del dialogo, della condivisione, della ricerca di compromessi tra le parti alla luce del bene comune. Le ricerche sull’argomento ci dicono che la strada da percorrere è tutta in salita. Se le donne al comando, di aziende, di uffici, di nazioni, si mostrano troppo decise, assertive, determinate sono bocciate, appunto, perché si mascolinizzano; se, al contrario, perseguono la compartecipazione, la paziente ricerca di equilibri che valorizzano ruoli, posizioni, rapporti basati sul rispetto reciproco, sulla trasparenza, se sono, insomma, empatiche e generose, diventano automaticamente deboli, incapaci a governare. Viene chiamato il fenomeno del backlash, del contraccolpo. 

Altrettante ricerche rilevano, però, che quando le donne, alle redine, ad esempio, di imprese, riescono in questo intento, i risultati sono sorprendenti. La collegialità, la cura degli aspetti umani, l’attenzione alle persone, sono molto più funzionali, raggiungono risultati migliori. Eppure le donne nel mondo occupano il 32% delle posizioni manageriali anche se, sempre a livello globale, rappresentano il 46% della forza lavoro. Questi dati diffusi dall’ultimo Global Gender Gap Report del World Economic Forum ribadiscono che i posti di comando sono ancora preclusi alle donne. C’è una frase che Maria Rosaria Boccia ha detto nel replicare alla presidente del Consiglio da non sottovalutare e che potrebbe essere la chiave che ci riconduce al cuore del problema di come si possa affermare una leadership femminile che non scimmiotti, e quindi resti subalterna, al modello maschile. Non si tratta di prendere le difese della Boccia, ma di cogliere un sassolino che può, gettato nelle acque mediatiche, sviluppare delle onde che ci porterebbero ad altre considerazioni sulla società che vogliamo. Ha detto che sono la gentilezza e le carezze ciò di cui abbiamo bisogno. Qualunque sia la conclusione, giudiziaria e politica (già in parte scritta con l’apertura di procedimento penale per l’ex ministro e le sue dimissioni) dello squallido caso che l’ha vista protagonista, vale la pena non dimenticare che in questo mondo di guerre, sia quelle ‘vere’ che si combattono con armi sanguinarie, sia quelle che mortificano la dignità delle persone, che calpestano i diritti fondanti di una società civile, ridare valore all’umano che è in noi può davvero fare la differenza. Non rassegnarsi al cinismo, non quello sublime degli antichi filosofi bensì l’indifferenza a qualsiasi valore morale, sociale che non sia la soddisfazione del proprio ego.

La gentilezza, la compassione che sta nel dare una carezza, ci porta all’altro, a chi sta fuori dal nostro individualismo, dalla ristretta cerchia del mio Io e dei miei amici accoliti. La gentilezza che non giudica e non alza barriere, quella che accoglie la fragilità dell’altro perché vi riconosce anche la propria. Sembra un discorso fuori tema, che non c’entra nulla, ma forse può aiutare tutti, coloro che svolgono funzioni istituzionali e l’intera cittadinanza, a non rassegnarsi a un sistema di disvalori.

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