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7 novembre 1922, la notte più lunga di Ataturk


di Vice


Il 7 novembre del 1922, un secolo fa, la minacciata prova di forza dell'Occidente contro la nuova e moderna Turchia di Mustafà Kemal Atatürk, nata appena sei giorni prima in un'assemblea del governo rivoluzionario riunitosi a ad Angora (come si chiamava allora Ankara), si rivelò per ciò che era: un bluff. I cannoni tacquero, non ci furono invasioni di truppe straniere, secondo i piani formulati da Francia e Gran Bretagna, e lo stesso Benito Mussolini, da pochi giorni al potere in Italia, si concesse una dichiarazione di circostanza a favore degli alleati, che non lo impegnava in prima persona. E l'ultimo dei Sultani di una dinastia al potere dal 1299, Mehmed VI, si incamminò melanconicamente da privato cittadino, verso l'esilio a bordo di una nave da guerra britannica, sostituito anche nel suo ruolo di califfo da Abdulmecid II, destinato ad essere sollevato nel 1924 con l'abolizione del califfato. Si coronava così, se non la forma primitiva e imperiale, il sogno che aveva dato linfa al movimento dei "Giovani turchi", studenti e ufficiali dell'esercito, che all'inizio del Novecento avevano costretto il Sultano Abdul Hamid II al ritorno alla Costituzione del 1876 e ad avviare la modernizzazione dell'Impero, oramai entrato in una fase centrifuga, e dalla fine della I guerra mondiale del movimento nazionalista guidato da Mustafa Kemal.

Il 1° novembre 1922, la Grande assemblea nazionale turca che aveva sancito il passaggio dall'Impero Ottomano, durato sei secoli, alla Repubblica di Turchia. Da quella data, in quel breve lasso di tempo, le potenze vincitrici della Grande Guerra avevano cercato di usare ogni mezzo contro i kemalisti e come ultima carta anche il sultano fantoccio deposto, Mehmed VI. Dietro assicurazioni inglesi, infatti, il Sultano rifiutava di abdicare dal suo titolo di Califfo. Un atteggiamento che, riferivano le cronache di quei giorni, contrastava con l'estendersi militare e amministrativo di Mustafa Kemal, quanto con la caduta del Primo ministro britannico Lloyd George, abbandonato dai conservatori e costretto ad affrontare da una posizione di debolezza le elezioni del 15 novembre. Una serie di circostanze a favore di Kemal, quasi sicuro dell'indisponibilità dell'Occidente ad aprire nuovi scenari di guerra con la Repubblica turca e oramai persuasosi che fosse chiuso il capitolo della velleitaria, quanto sbandierata (ri)discesa in campo della Grecia, dopo l'abdicazione di re Costantino.


Interessante l'analisi con le parole di una corrispondenza da Londra pubblicata l'8 novembre su La Stampa: "Le notizie da Costantinopoli, benché ovattate e ritardate dalla censura, si fanno sempre più taglienti. I kemalisti sanno di avere il coltello per il manico, ed appaiono più che mai risoluti ad usarlo. [...] Gli ambienti ufficiali non nascondono le loro apprensioni. Bisogna altresì considerare che un intervento energico in questi giorni sarebbe oltremodo più difficile che non al tempo di Lloyd George. Allora egli, sia pure in un modo brusco, caotico e grossolano, aveva piantato il pugno sugli Stretti, e Mustafa Kemal si era ridotto per forza a rispettarlo, dopo averlo imprudentemente preso in giro. Ma la partenza di Lloyd George ed il modo in cui i conservatori estremi presero a bersagliarlo hanno scosso e travolto l'intera posizione militare che il vecchio Gabinetto era riuscito a rabberciare febbrilmente laggiù. [...] Refet Pascià[1], la lunga mano di Mustafà Kemal, è calato su Costantinopoli, ed approfittando della dabbenaggine occidentale, dispone ormai entro la capitale dei cinquemila gendarmi armati, che erano del Sultano; nonché, a quanto pare, di altri 15.000 uomini organizzati alla fascista, e di varie centinaia di migliaia di abitanti turchi pronti a fare pazzie [...] Si capisce quindi come l'atteggiamento degli agenti kemalisti. infiltratisi fin sotto la tavola .dell'amministrazione alleata di Costantinopoli, sia tra l'ironico e l'insolente; e come la marmaglia fanatica della città minacci di incominciare da un momento all'altro a indemoniarsi. Dimostrazioni di elementi eccitatissimi perturbarono Costantinopoli per tutta la notte di domenica. Noi quartieri turchi «sino alla periferia di quelli europei si urlava: «Abbasso gli inglesi! Abbasso gli Alleati!». Innumeri abitazioni di piccola gente cristiana ebbero le finestre fracassate. Quattro o cinque fantaccini inglesi in punti diversi della città vennero pugnalati; e si ignora se abbiano potuto sopravvivere alle ferite. Questa, insieme con l'inizio di un febbrile e tumultuoso esodo di cristiani, era la situazione a Costantinopoli: quando iersera gli alti commissari alleati si abboccarono con Refet Pascià, per intimargli che essi non potevano ammettere che il controllo della città passasse nelle sue mani sino al giorno della ratifica della pace...".[2]


La Turchia nazionalista e laica, insofferente ai vincoli delle Potenze Alleate era pronta dunque a colpire gli interessi mercantili e commerciali, decisione ribadita dallo stesso Refet e dall'Assemblea propensa a rivendicare l'intero controllo amministrativo del territorio, sfruttando le titubanze dell'Occidente che a parole vagheggiava interventi militari anche con l'apporto di Romania e Jugoslavia, secondo i corrispondenti dell'epoca. Ma non vi sarà nulla di tutto ciò. Anzi. La Turchia, i cui cui confini, forgiati dal sangue sul campo, non sulla carta di diplomatici lontani, si sono rivelati tanto solidi quanto quelli dei suoi vicini sudorientali sono porosi. [3] E soprattutto, non poteva più versare, commentò Kemal Ataturk, "altre lacrime sulla sua grandezza passata.(4)





[1] Minacciosa situazione a Costantinopoli, La Stampa, 8 novembre 1922

[2] Refet (Bele) era stato "una specie di capo di stato maggiore" di Mustafa Kemal, vecchio amico ai tempi di Salonicco in Sean McMeekin, Il crollo dell'Impero Ottomano, pag. 431, Einaudi, 2017

[3] Ibidem, pag. 483

[4] Luigi Mascilli Migliorini, L'ultimo giorno dell'Impero ottomano, Il Sole 24 ore, 30 ottobre 2022



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