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Michele Ruggiero

50 anni fa il golpe in Cile. L'esilio degli Inti Illimani

di Michele Ruggiero

L'11 settembre del 1973, gli Inti Illimani scoprirono che l'inno "El pueblo unido jamás será vencido" era un precipitato di dolore che mescolava rabbia e orgoglio. E che quella acclamazione "Soldago, amigo, el pueblo està contigo", con cui la folla aveva salutato i vertici delle forze armate davanti al palazzo della Moneda per aver scongiurato il Tanquetazo, il golpe dei carri armati del tenente colonello Roberto Souper, soltanto alcuni mesi prima, era stata tradita, calpestata, seviziata. I soldati non erano amici e sparavano sul popolo.

Fu in quel preciso momento, mentre gli aerei bombardavano il palazzo presidenziale a Santiago del Cile, che gli Inti Illimani, autori di musica popolare cilena, espressione della Nueva Canción Chilena, si ritrovarono catapultati dal destino in una dimensione che impastava alla velocità della luce la politica e l'ideologia alla musica e che li rendeva interpreti e simboli per più generazioni, con i ritmi della musica andina, della lotta contro la barbarie dell'oppressione. Il gruppo musicale aveva scelto l'Italia, Milano, la Festa dell'Unità, come prima tappa di un tour europeo che sarebbe rivelato infinito. Nel dramma personale e collettivo l'Italia divenne la loro seconda patria: esuli, cui era concesso asilo politico, da quel Cile democratico di Salvador Allende che l'11 settembre era stato piegato e umiliato da militari infingardi e da quelle connivenze politiche colpevoli di rinunciare alla democrazia per la sicurezza dell'ordine e il ristabilimento delle storiche gerarchie sociali.

Una rinuncia transitoria, almeno nei propositi della Democrazia Cristiana cilena, principale partito d'opposizione a Unidad Popular. La Dc era convinta di poter usare la giunta militare, in cui si era immediatamente affermato il generale Augusto Pinochet, grande ammiratore del despota spagnolo Francisco Franco, alla stessa stregua con cui la monarchia italiana e i ministri liberali e cattolici confidavano di sbarazzarsi di Mussolini e del fascismo dopo la marcia su Roma. Un'illusione ammaliante cui aveva resistito soltanto Bernardo Leighton, uno dei fondatori della dc cilena e uno dei sedici firmatari della sinistra Dc contrari alla tesi dell'ineludibile rovesciamento violento del governo Allende, tesi sostenuta dal presidente del partito Patricio Aylwin, che nel 1990, paradosso della conseguenza, sarebbe stato il primo presidente del Cile libero dal dittatore Pinochet, il "gran funeralissimo cileno", come lo bollò il poeta Rafael Alberti.

Gli Inti se ne andarono dall'Italia alla fine degli anni Ottanta, al tramonto di Pinochet e all'alba del ritorno alla democrazia: uno spazio temporale di tre lustri vissuto tra i colli Albani e Roma, riempito da concerti, in parte gratuiti per sostenere le lotte operaie, da successi con LP più volte in testa alla Hit Parade delle vendite, da album numerati con una martellante sequenza annuale, come per calcare con parole e suoni ostinati, indelebili, così orecchiabili, che "El pueblo unido" era stato sì "vencido", ma non nelle coscienze e nella volontà di uscire vittorioso dalle tenebre della repressione e che "Venceremos" non era soltanto una marcetta augurale per travolgere le baionette di Pinochet.

Negli anni Settanta, la scenografia si imponeva sul palco con capelli lunghi e barbe, il poncho come vestito, divisa quasi d'ordinanza rivoluzionaria, il "charango", la chitarra, la "quena", il flauto con cui le note andine salivano di tono per trascinare il pubblico nell'immaginifico cuore di un Paese ferito, ma che ancora pulsava per un insopprimibile anelito di libertà. Nei loro concerti aleggiava il ricordo degli amici imprigionati e uccisi, sublimato dai testi penetranti di Victor Jara, testi interpretati con la passione che si doveva al poeta, cantautore, attore, regista teatrale, imprigionato, torturato, morto per mano degli sgherri di Pinochet negli interrati dello Estadio National de Chile, insieme con le parole della struggente "Gracias a la vida" di Violeta Parra, la poetessa "pasionaria" che aveva rinnovato il canto popolare in Cile, i cui figli Isabel e Angel erano stati vittime della furia militare.

Affermare che in questi decenni si è maturato un debito di riconoscenza verso gli Inti Illimani è quasi scontato. La loro musica si è intonata nel credo di chi crede nella libertà e nel socialismo riformista, che in un Paese come il Cile era ed è, se pensiamo che un terzo dei cileni rimpiange Pinochet, secondo una recente indagine, quanto di più rivoluzionario fosse lecito sperare. Ma ciò che di originale si deve agli Inti, e non era scontato, è la continuità con cui hanno raccontato, in tempi di neoliberismo sregolato (la prima degli alfieri, Margaret Thatcher, per riportarci al dramma cileno, nel marzo del 1999 si segnalava visitando Pinochet in ospedale a Londra, ringraziandolo "per aver riportato la democrazia in Cile"), di globalizzazione di rapina, di guerre contrabbandate come esportazione della democrazia, che il sogno di un popolo unito, per quanto ingenuo e superato dalle angherie e ingiustizie quotidiane, rimane l'antidoto migliore per credere che l'umanità abbia un futuro.



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